Tra ansia e timidezza, quale discende dall’altra? A regime questi due fattori si alimentano reciprocamente, ma la questione se sia nato prima l’uovo o la gallina qui non si pone.
La timidezza è generata da un apparato cognitivo non funzionale in una o più parti dell’insieme che lo costituisce. Parlo delle cosiddette credenze, dell’attività previsionale e di valutazione della nostra mente; in sostanza, per usare una terminologia più comprensibile, l’io inconscio.
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Jorge de la Vega – Intimità di un timido
La timidezza è, pertanto, una condizione mentale che prefigura idee negative e scenari di pericolo penalizzanti per l’individuo, nella sua realtà sociale.
L’ansia subentra quando il sistema cognitivo ha operato le sue valutazioni, sulla base delle credenze operanti, e svolto il suo bilancio di previsione.
È a questo punto che entrano in gioco le paure per ciò che può accadere e che, nella mente di una persona timida, ha sempre un segno negativo, sovente catastrofico.
L’ansia è dunque la risposta emotiva e fisiologica dell’attività istruttoria svoltasi in sede cognitiva. Possiamo quindi definirla come la reazione ad una condizione mentale prefigurante pensieri negativi e scenari di pericolo penalizzanti.
Ma perché ho esordito dicendo che ansia e timidezza, a regime, si alimentano reciprocamente?
Perché una volta che si è timidi, tutte le fasi che caratterizzano e delineano la manifestazione della timidezza, vanno a costituire un processo circolare, ogni tassello da effetto diventa a sua volta causa.
Faccio un esempio: JJ vorrebbe avvicinare una persona dell’altro sesso, comincia a pensare che la sua persona non interessa a nessuno (rappresentazione di sé), quindi pensa che sarà respinto e farà una figuraccia (previsione); JJ va in apprensione, è preso da un senso d’angoscia, aumentano i battiti cardiaci, comincia a sudare (manifestazioni dell’ansia); JJ decide di rinunciare (comportamento di protezione, l’evitamento); allontanandosi deluso e svilito JJ pensa “ma dove volevo andare?!, ma chi vuole uno/a come me!?” (conferma della rappresentazione di sé, cioè non è interessante).
La conferma della rappresentazione di sé, va a rafforzare ulteriormente la convinzione negativa che JJ ha su di sé, se ne convince sempre di più. Ad un certo punto, questi tipi di situazioni sono diventati routine, la mente ha appreso l’intero processo, per cui basta che JJ pensi solo o veda quella fatidica persona da lontano perché scatti l’ansia, che a questo punto va ad alimentare l’intero processo. Questo fenomeno può essere spiegato con le leggi del condizionamento classico e del condizionamento operante.
L’apprendimento è definito come quel processo mediante il quale l’esperienza (stimolo) modifica in modo permanente il comportamento (risposta). Quando ad un determinato stimolo un individuo reagisce sempre allo stesso modo, egli è oggetto di un condizionamento, questo viene chiamato condizionamento classico o riflesso condizionato.
Accade che il soggetto associa allo stimolo ricevuto un determinato effetto. Molto noto è l’esperimento di Pavlov: egli presentava ad un cane del cibo, l’animale reagiva con la salivazione, in una fase successiva il ricercatore, prima di esporre il cibo emetteva il suono di un campanello; il cane cominciò ad associare il suono del campanello al cibo, ciò gli procurava la salivazione prima ancora che gli venisse proposto l’alimento. Pavlov chiamò il cibo “stimolo incondizionato”, il campanello “stimolo condizionato”, la salivazione “risposta”.
Successivamente furono introdotte le leggi del condizionamento operante, un altro ricercatore, Skinner, notò che ripetendo sempre lo stesso stimolo, l’apprendimento è più rapido: ne conseguirono due leggi legate all’apprendimento: la legge dell’effetto e quella dell’esercizio.
Secondo la legge dell’effetto, si tende a ripetere quei comportamenti che hanno ottenuto risultati benefici (premio), mentre si tende ad abbandonare quelli che hanno avuto effetti negativi o inutili (punizione).
Secondo la legge dell’esercizio, la risposta ad un determinato stimolo è maggiormente ripetibile quanto maggiore è il numero delle ripetizioni.
Ritornando all’esempio di JJ, l’ansia si manifesta come frutto di un condizionamento e pertanto può comparire anche quando la situazione non si sta nemmeno presentandosi, basta l’idea che possa profilarsi.
In conclusione, è un errore ritenere che la timidezza possa scaturire dall’ansia, perché è vero il contrario. Ma l’ansia che è da considerarsi un sintomo, come tutti gli altri fattori che intervengono nella manifestazione della timidezza, ne favorisce il ripresentarsi.