La paura è un meccanismo d’allarme proprio delle forme di vita animale. È innata e fa dunque parte del nostro corredo genetico relativamente a quell’insieme di funzioni automatiche che potremmo anche chiamare di “istinto animale”.
La sua funzione è di favorire l’attivazione delle strategie di fronteggiamento del pericolo e predisporre l’organismo (mente e corpo) alle azioni di lotta o di fuga.
La paura, di per sé, non è da considerare un fenomeno negativo.
A questo punto si rende, però, necessaria una distinzione.
Se è vero che la paura è un fenomeno naturale, insito nella specie umana, è anche vero che essa è generata dalla percezione cognitiva del pericolo.
In ciò, l’apprendimento svolge una funzione regolatrice. Con l’esperienza, infatti, l’uomo, apprende a valutare le tipologie del pericolo, la sua possibile entità, il tipo di danno che può produrre. Impariamo, cioè, a distinguere tra un pericolo oggettivo e un pericolo apparente o irrilevante. Grazie all’apprendimento esperienziale, impariamo anche a valutare se un pericolo oggettivo è da intendere, come possibile oppure certo e immanente; e nel momento in cui lo giudichiamo come possibile siamo anche in grado di stimare un livello probabilistico.
L’apprendimento, dunque, favorisce un’attività discriminante nella valutazione del pericolo, e ciò fa si che l’attivazione emotiva della paura, possa non verificarsi affatto, oppure, manifestarsi in diversi livelli d’intensità, dalla semplice lieve preoccupazione al terrore assoluto.
Le paure infantili, come ad esempio quella del buio o degli sconosciuti, si rifanno alla mancanza di contenuto chiaro ed evidente in ciò che non si conosce, in ciò che appare come qualcosa d’indefinito, non pienamente descrivibile in termini cognitivi, è che, dunque, può essere contenitore di elementi dannosi per il sé del bambino. Ciò che non è cognitivamente spiegabile, alimenta l’idea del pericolo che, nel bambino, assume caratteristiche estremamente fantasiose, ma che sono vissute e percepite come reali.
Crescendo queste paure vengono mitigate dalle esperienze, grazie alle quali, egli è in grado di superare determinate idee di pericolo. La paura primordiale viene confinata nell’alveo dell’oggettività.
Capita, però, che non tutti riescono a superare determinate paure, così come può capitare che in alcune persone le paure si ripresentano a seguito di esperienze negative reiterate o traumatiche.
Succede quando si perde, o s’inibisce, l’abilità discriminatoria nella valutazione del pericolo.
È quello che accade alle persone afflitte da timidezza, dalle altre forme di ansia sociale, da altri disturbi emotivi.
In questi casi, il soggetto timido può percepire un pericolo come persino immanente, anche quando, di fatto, non esiste.
Ciò che potrebbe essere, teoricamente, semplicemente possibile si trasforma in qualcosa a elevatissima probabilità che si verifichi, in determinati casi, in certezza assoluta.
In determinati tipi di disturbi, come quello di panico, tutto ciò sfocia nel terrore vero e proprio.
Nella timidezza entra in gioco, oltre all’interpretazione degli eventi, delle situazioni, dei comportamenti, l’idea del sé rispetto e verso gli altri, l’idea del sé come soggetto sociale calato in un sistema di relazioni.
Le interpretazioni degli stimoli esterni interagiscono con le credenze sul sé e sugli altri. La paura, in questi casi, non è riferita a un danno propriamente materiale, ma a un danno al sé sociale.
Non ci troviamo più di fronte ad una paura primordiale con cui gestire le nostre possibilità di morte o di vita, ma dinanzi a una paura sociale che pone sul piatto della bilancia la sussistenza e la qualità della propria vita sociale.
In tutte le forme di ansia sociale la paura è paura sociale.
È’ paura del giudizio negativo altrui, di mostrarsi inabile o incapace dinanzi agli altri, di fare brutta figura, di fallire come soggetto sociale; di apparire stupido/a, demente o inferiore agli altri; di apparire debole, privo/a di personalità o carattere; di risultare agli occhi degli altri come individuo insignificante, inutile, non amabile, non interessante, non attraente; di essere visto/a come persona incapace a relazionarsi e a comunicare.
D’altra parte tutte le forme di ansia sociale sono disturbi o disagi riferiti agli altri relativi, cioè, al dominio dei ruoli, delle funzioni e delle relazioni sociali: al di fuori di questo mondo, tali disturbi o disagi non possono sussistere; del resto non avrebbero gli elementi di riferimento e raffronto fondamentali per la valutazione e definizione del sé.