La timidezza è una forma di ansia sociale, di origine cognitiva, che determina difficoltà adattative, di vario genere e tipologia, nell’ambiente sociale.
La timidezza nasce e si alimenta nella nostra mente, ma le cognizioni attivate innescano un processo a catena che coinvolge l’individuo nella sua interezza e nelle interazioni sociali.
Infatti, la timidezza è contrassegnata dalla tendenza a mantenersi in ombra, a evitare di prendere l’iniziativa in situazioni sociali; da impaccio nelle relazioni e nelle performance, di qualsiasi natura e in presenza di terzi; da comportamenti (intesi come ciò che si fa e si dice) improntati a indecisione, inibizione, ritrosia, e ciò nonostante ci sia il desiderio relativo di affrontare certe relazioni.
Comportamenti che si manifestano con intensità e frequenza decisamente superiori a quanto accade, in analoghe situazioni, ad altri individui.
In linea generale possiamo dire che la timidezza nasce dal percepirsi diversi dagli altri e dal percepire ciò che è fuori da sé come qualcosa d’ignoto e rischioso.
È, pertanto, una condizione mentale che prefigura scenari di pericolo o minaccia penalizzanti per se stessi, o nella propria realtà sociale.
La timidezza si manifesta anche in alcuni contenuti del “dire”, questo perché il soggetto timido, spesso, è privo di adeguati modelli di comunicazione, dovuto a un mancato apprendimento oppure al mancato o insufficiente esercizio alla comunicazione.
L’origine cognitiva della timidezza è poco visibile esternamente, ma fortemente incombente nei dialoghi interiori. La persona timida non deve fare solo i conti con le proprie carenze comunicative, egli è in continuo confronto-scontro con l’idea che ha di sé, con le convinzioni profonde (credenze di base) riguardanti le sue abilità, capacità, potenzialità, accettabilità.
L’insieme di questo quadro cognitivo, produce una difficoltà di adattamento socia
le che è ulteriormente alimentata e amplificata dai comportamenti attuati, e dalle conseguenze negative che si ripercuotono nella vita sociale.
Infatti, i comportamenti e gli esiti che ne derivano, sono oggetto, a loro volta, di valutazione che le persone timide svolgono nel loro dialogo interiore. Queste metacognizioni, sono, sostanzialmente, dominate dal carattere emotivo della valutazione stessa.
L’emozione che, più di altre, influenza negativamente, o comunque in modo disfunzionale, i processi di valutazione e i comportamenti degli individui timidi, è senz’altro la paura.
Questa si manifesta, principalmente, nelle situazioni in cui si è oggetto degli sguardi e delle valutazioni altrui. Quasi sempre, però, l’essere oggetto di sguardi e valutazioni, risulta essere un’interpretazione dello stesso soggetto timido, cioè, egli pensa e/o si convince di essere sotto osservazione o giudicato dagli altri.
La paura del giudizio altrui, “foraggiata” da credenze di base, improntate sull’idea d’inadeguatezza, induce, da una parte, a pensieri di tipo valutativo ispirati a idee d’insufficienza e dall’altro, a pensieri di carattere previsionale che adombrano insuccessi, fallimenti, esclusioni, respingimenti, umiliazioni.
D’altra parte, se una credenza di base definisce se stessi come persona inadeguata, il processo cognitivo, che assume tale informazione, non può che svolgere una valutazione d’insufficienza dei mezzi disponibili a far fronte efficacemente alla situazione presa in esame. Di conseguenza anche le valutazioni previsionali, non possono che stimare al ribasso gli effetti delle proprie azioni.
Da quanto ho appena descritto, emerge uno dei problemi fondamentali della timidezza: i pensieri negativi.
Le persone timide tendono a interpretare in chiave negativa o pessimistica tutte le situazioni in cui sono coinvolte come soggetti sociali.
Tuttavia i soggetti timidi difficilmente sono in grado di individuare gli elementi disadattivi del proprio comportamento, e ancor di più, delle forme di pensiero abituali, cui peraltro, tendono ad assegnare valore di fondatezza.
Difatti, quando provano a spiegarsi le ragioni e le cause della propria timidezza, tendono a puntare il dito sui contenuti delle credenze disfunzionali assumendone, cioè, le assunzioni, piuttosto che sulla loro natura disadattività ed emotiva. In pratica ogni loro tentativo di spiegazione e soluzione si dirige nella direzione del rafforzamento proprio di quella condizione che vorrebbero superare.