Spesso utilizziamo il termine “asociale” in modo improprio, nel senso che tale parola afferisce a un individuo insensibile ai fatti, ai problemi e alla vita sociale, non interessato per nulla alla socialità.

Lucia Schettino – La caduta delle mie forze

La persona afflitta da ansia sociale aspira a una socialità piena, soffre per il senso di non appartenenza o nel percepire sé stessa come appartenente in modo precario. Il suo problema, sta nella difficoltà che incontra nell’interagire con gli altri. 

I suoi tentativi di relazionarsi si risolvono, generalmente, in un insuccesso dovuto all’adozione di comportamenti non funzionali al relazionamento sociale, oppure al condizionamento dovuto all’ inibizione ansiogena.
In questo modo, la persona timida, accumula sequenze anche consecutive d’insuccessi, e ciò produce sentimenti negativi, dolore per la non appartenenza, l’idea di un sé come fallito o incapace, l’idea degli altri come indisponibili e respingenti.
Dunque, da una parte si convince di non essere abile o capace, che si traduce con un giudizio negativo su sé stessa all’insegna del concetto del fallimento; per un’altra parte percepisce gli altri come distanti e non ben disposti; per altra parte ancora egli vive, nella sua emotività, lo
scoramento, il senso di impotenza, l’ineluttabilità della propria condizione, la solitudine.

Il sommarsi delle esperienze infruttuose, rafforzano la memoria di un sé inefficace e inconcludente, diventa un luogo di riferimento per tutte le attività cognitive di valutazioni future: la mente attinge a questi trascorsi negativi per determinare i livelli probabilistici nei pensieri
previsionali futuri.
Allo stesso tempo le idee di incapacità, di fallimento, d’inabilità, di non attraibilità, vanno a confermare e rafforzare quelle credenze disfunzionali che sono alla base del proprio disagio psichico.
Ogni volta che un ansioso sociale si trova dinanzi alla scelta dell’interazione sociale, la sua mente è pervasa da un flusso di pensieri automatici negativi, che si presentano in forma verbale o d’ immagini mentali, e tendono a due aspetti principali: le proprie incapacità o inabilità e le previsioni negative sugli esiti dell’interazione che gli appaiono troppo dolorose per essere affrontate. L’idea della non sopportabilità della sofferenza, che l’individuo timido prevede di vivere, è tale da spingerlo a considerare catastrofico l’esito dell’esperienza.
“Se sarò costretto a dire la verità su di me, sarà troppo vergognoso”, “capiranno che sono un fallimento totale, e non vorranno più avere a che fare con me”, “finirò col fare la figura dell’idiota”, “sembrerò una persona stupida e insignificante”, “mi bloccherò come al solito, finirà che si stancheranno di me”, “e se non vorranno avermi con loro? Sarà davvero insopportabile”, “non potrei sopportare un altro fallimento”, “non ci so fare, perché mai dovrei andarci?”, “E poi vado là per fare il muto, a dare questa misera visione di me”, “vado solo a guardare la mia agonia”.
Diversamente dalla verbalità, nelle immagini mentali, la negatività è significata da un “fermo immagine”, una scena emblematica della propria presunta inadeguatezza.
Poco per volta la paura della catastrofe lo spinge al ritiro sociale: la persona timida se ne sta a cuccia, come un cane bastonato, a leccarsi ferite che non ha subito ma che la propria immaginazione ha reso reali.
L’idea dell’incapacità o dell’inabilità e il timore dell’inabitabile fallimento, fa precipitare gli ansiosi sociali nel vortice della non attività. 
Se ne stanno isolati nelle feste, in silenzio nelle conversazioni, con un’espressione astratta e distratta, non prendono iniziative: in breve non interagiscono.
I comportamenti verbali e non verbali sono potenti strumenti di comunicazioneComunicano a prescindere dalle nostre intenzioni.
La non interazione nelle situazioni sociali induce, gli altri, a interpretare i comportamenti dell’ansioso sociale come significativi di un non interesse alla socialità. 
Le persone, quelle diciamo “normali”, i non ansiosi, non comprendono i comportamenti auto isolanti. Non per insensibilità, ma per la non conoscenza di un’esperienza dolorosa, perché non vivono quell’emotività intensa, quei dialoghi interiori autodistruttivi, quelle dinamiche psicologiche che inducono gli ansiosi sociali al ritiro sociale. 
L’altro non è nella mente del soggetto timido che vive una condizione diversa e un’esperienza diversa. Quello che vede appartiene al solo mondo dei fatti, e le sue interpretazioni vertono sulla non partecipazione pura e semplice. Sono modelli interpretativi diversi.
Nel tempo, col susseguirsi delle estraniazioni, dei fallimenti nell’interazione, dei silenzi perduranti, del rinchiudersi nei propri dialoghi interiori, le persone ansiose sociali finiscono col percepire sé stessi come incapaci di socialità e cominciano a considerarsi degli asociali.
Per una persona timida, un sociofobico, il ritiro sociale è una sconfitta, il fallimento di sé, gli impone il dolore della non appartenenza.
 
 
 
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