Le persone timide temono fortemente di rivelare la propria timidezza, soprattutto quando a questa associano l’idea di debolezza, di incompletezza, di fallimento.
La persona timida non avverte su di sé l’imperfezione dovuta all’essere un umano, ma l’imperfezione che va oltre la normalità, anzi, che delinea la anormalità.
Talvolta si sente sbagliata, difettosa per nascita; in altri casi, prevale l’idea del fallimento di sé come persona; spesso, si convince di essere incapace di raggiungere gli scopi, di trovare soluzioni congrue, di fronteggiare efficacemente situazioni ed eventi; anche il pensiero di essere inabile alla socialità è da annoverare tra i convincimenti limitanti che caratterizzano la definizione del sé degli individui timidi. Spesso, si sentono tutte queste cose messe insieme.
Nella timidezza, la diversità di sé che si avverte rispetto agli altri, è di quelle che creano un solco ben profondo tra la propria persona e l’ambiente cui si vorrebbe appartenere o all’insieme sociale.
È una diversità sentita come fattore socialmente escludente, isolante, marginalizzante; in pratica, che impedisce di vivere un sentimento di appartenenza e godere dell’accettazione da parte degli altri.
Gli individui timidi travolti da questa auto percezione negativa di sé, che raccoglie l’insieme delle idee di inadeguatezza e di precaria o mancante appartenenza, si sentono nudi, troppo trasparenti agli occhi degli altri, troppo fragili e deboli.
Per ogni soggetto timido, nell’incrociare lo sguardo degli altri è insita un’alta minaccia, il rischio altissimo, anzi, pressoché certo, di rendere evidente, fin troppo, la propria trasparenza; quella per la quale, debolezze e inadeguatezze proprie si rendono ben visibili.
Chiaramente, per una persona timida, si tratta di una visibilità in negativo che apre la strada al giudizio negativo altrui e, di conseguenza, all’ostracismo sociale.
In verità, la visibilità delle qualità negative, è cosa da cui si tengono lontano un po’ tutti, anche coloro che non hanno problemi di timidezza o di altro genere. Infatti, per perseguire lo scopo dell’accettazione sociale, ogni individuo tende sempre a porre in evidenza le sole qualità positive. La differenza è riscontrabile nel fatto che nella timidezza, tale scopo è oggetto di assillanti processi cognitivi e metacognitivi.
In altri termini, il non voler apparire negativamente è una ossessione che spinge gli individui timidi persino a perseguire l’antiscopo.
In ciò non si evidenzia soltanto il problema dell’accettazione, ma anche quello del controllo; ciò perché le persone timide tendono a una pressante attività di controllo sia delle proprie reazioni che riguardano le movenze, le espressioni facciali, le sensazioni fisiche, le emozioni; sia gli atteggiamenti altrui da cui poi scaturiscono il sentirsi osservati e giudicati.
Così stanno sempre a chiedersi come appaiono agli altri, a valutare se sono goffi o meno, se emerge qualche espressione facciale non consona, a essere terrorizzati all’idea di arrossire, a chiedersi se sono stati scoperti.
In certi casi, entra in gioco la vergogna. Percependosi negativamente, come soggetto inadeguato, incapace, inabile socialmente, non attraente come persona, la persona timida sente venir meno la propria dignità personale, sente di non corrispondere a quei valori cui conferisce importanza primaria. Questa discrepanza, la mancata convergenza tra i propri valori primari e il proprio essere, la pongono in una sorta di condizione di peccato, di mancato rispetto di regole che essa stessa assume come principi fondanti.
Per certi versi, la vergogna si delinea come mancanza del rispetto e dell’affermazione del sé: in questo si consuma la perdita della dignità personale. L’individuo timido si vergogna di apparire senza dignità.
Nella timidezza, incrociare gli sguardi degli altri costituisce un problema perché tale attività è vissuta come un mettere a repentaglio la propria credibilità.
Questo problema è ben più comprensibile quando si pensa al fatto che nelle ansie sociali, il giudizio negativo degli altri assume notevole importanza giacché determina le sorti riguardanti l’appartenenza sociale e, dunque il sentirsi accettati.