PRIMA PARTE

Quest’articolo e quello che segue, nasce da lettere e commenti al blog, nei quali si evince una difficoltà nella comprensione del senso del ricorso all’accettazione.
Un mio gentile lettore ha recentemente commentato con questa frase: “come è possibile accettarsi, se la timidezza di per sé è una cosa del tutto negativa?” 
Comprendo perfettamente la difficoltà che può provare una persona timida, o comunque soggetto a una qualsiasi forma di ansia sociale, nel considerare l’accettazione come qualcosa di antitetico al desiderio di liberarsi dalla propria condizione limitante. Infatti, tale pratica è di difficile attuazione, ma non impossibile, per chi vive condizioni di disagio nel mondo delle relazioni umane.

Salvador Dalì – il miele è più dolce del sangue

Per chiarire meglio il senso dell’importanza dell’accettazione, mi sembra opportuno svolgere delle considerazioni secondo due aspetti essenziali, uno è legato all’esperienza della ricerca clinica, l’altro è il senso e il significato dell’accettazione.

Diciamo subito due cose di base:

  • La non accettazione della propria forma di sofferenza interiore, e in definitiva di sé stessi, è un portato dell’ansia sociale stessa.
  • La condizione dell’essere soggetti all’ansia sociale, alla timidezza, è generata dai pensieri disfunzionali.

Ora, senza entrare nel dettaglio sul perché o sul come si formano tali pensieri, che esula dalle intenzioni di quest’articolo, mi preme fare delle considerazioni sulla loro funzionalità e sul rapporto che s’instaura tra gli individui timidi (gli ansiosi sociali in generale) e i loro pensieri disfunzionali.

I pensieri automatici negativi assumono, nell’economia delle attività mentali del soggetto ansioso, la piena centralità; vale a dire che assorbono appieno la funzione dell’attenzione, diventando quindi il fattore centrale dell’attività cognitiva dell’individuo.

Le persone timide, nel ricordare e/o nel rimuginare una situazione, vi si identificano sino a diventare un tutt’uno con esse, in un certo senso, la persona e la situazione si fondono, cioè si identificano nell’evento trascorso come se questo si verificasse nel presente. 
Questo implica che il presente reale non è vissuto, ma sostituito da un presente fittizio costituito da un evento passato o da un immaginifico futuro che però è espressione di eventi trascorsi.

Ciò accade, sostanzialmente, perché i pensieri vengono vissuti come fatto reale, e di questo fenomeno non si ha consapevolezza, anche perché tutto procede come se fosse inserito il pilota automatico.

L’attività mentale del soggetto timido, soprattutto nella sua attività ruminante, nasce dal desiderio di trovare una soluzione al proprio problema, contingente o strutturale che sia. Egli si muove, cioè, in ciò che considera una modalità del fare che si attiva nel momento in cui la mente nota una discrepanza tra l’idea di come sono le cose e l’idea di come dovrebbero essere.

Il problema è che, più si muove in questa direzione, più non fa altro che alimentare l’invasività e la persistenza dell’ansia sociale.

In una persona timida la modalità del fare implica avere un obiettivo di controllo, la cui forma comportamentale più comune è l’evitamento, mentre la forma logica più comune è il giudizio. Ma di quest’aspetto tratterò più compiutamente in un altro articolo. 

Questo circolo vizioso è testimoniato anche dal fatto che gli individui timidi sono in continuo conflitto con la proprie esperienze interne, senza mai riuscire a porvi rimedio.

La conflittualità interiore, che si consuma tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è, produce uno stato di tensione che pone, le persone timide e gli ansiosi sociali in generale, in una situazione di stallo, senza via d’uscita.

La modalità del fare finisce col tradursi con un logoro abito mentale. “I vecchi abiti mentali sono ingannevoli perché inducono a cercare di «pensare» a come uscire dai problemi, il che significa continuare a rimuginare sull’attuale situazione emozionale, sugli eventi negativi del passato e su tutti i problemi ulteriori che potranno sorgere se le cose non cambiano. Al cuore delle ruminazioni c’è quello che potremmo chiamare un «rilevatore di discrepanza», un processo che continuamente tiene sotto controllo e valuta lo stato del Sé nella situazione attuale rispetto a una norma di ciò che è desiderato, richiesto, atteso o temuto.“. [Segal,Williams, Teasdale,  Mindfulness, al di là del pensiero, attraverso il pensiero, 2006]

Lo stesso accade anche quando l’ansioso sociale si approccia alla psicoterapia o ricorre all’utilizzo dei manuali di auto aiuto come il mio “Addio timidezza“. 
Egli vi si pone con un obiettivo che considera obbligatorio, impellente, vincolante. Un tale approccio mentale perentorio, costituisce da subito, un fattore di ulteriore complicazione dell’attività terapeutica. Si vive emotivamente un processo terapeutico, da esso ci si aspetta risposte e soluzioni, le quali devono essere anche evidenti. Quest’aspettativa è del tutto comprensibile, ma la liberazione dall’ansia sociale e dalla timidezza comincia con l’abbandono della logica del conflitto. 

Fare la guerra alla timidezza o alle altre forme di ansia sociale, significa cominciare col dimenticare di essere in guerra, significa procedere verso un mutamento che non ha né tempi, né forme prestabilite, significa uscire dalla modalità del fare per addentrarsi nella modalità dell’essere.

Condividi questo articolo: