Ogni nostra azione è una scelta, anche quando non si agisce, in realtà, si compie una scelta. 

Quando si evita una situazione, o la si elude, o si sceglie la fuga, oppure ci si estranea, si opera una scelta, quella di non avere un ruolo attivo nel sistema di relazioni interpersonali.

Rene Magritte – la cuccetta incosciente

La non decisione è una scelta rinunciataria, passiva, tuttavia, essa non perde, né evita la comunicazione, semplicemente perché come dice Watzlawick, non è possibile non comunicare, qualsiasi cosa si faccia o non si faccia, si comunica, indipendentemente dalla nostra volontà.

I comportamenti di rinuncia hanno, intrinsecamente, una peculiarità sociale: la non assunzione di responsabilità verso sé stessi e verso gli altri. 

I comportamenti evitanti e gli altri similari, hanno l’obiettivo di non assumere il rischio dell’interazione sociale, pertanto, nel caso in cui gli eventi non sono favorevoli, si rifugge dalla possibilità di dover fare i conti con gli altri o con la propria persona, con gli scheletri nel proprio armadio.
Di ciò l’ansioso sociale non ha consapevolezza poiché si tratta di processi automatici. Il soggetto timido si preoccupa soprattutto di ciò che appare evidente alla sua attenzione, quindi l’ansia fisiologica ed emotiva, le emozioni come la vergogna e la paura. 

Nel continuo limitarsi, nascondersi, privarsi, egli consuma l’illusione di avere evitato il peggio, di sfuggire alle critiche feroci altrui, di non fare emergere o rendere visibile le pochezze, l’inettitudine, l’insignificanza, l’incapacità, l’inamorevolezza, che è convinto di avere come qualità proprie, peculiari. In realtà egli rifiuta sé stesso per ciò che ritiene di essere, non per ciò che è, una reale identità che sfugge alla sua mente. Purtroppo questo rifiuto, questa vergogna, costituendo la risposta alla sua percezione del mondo, lo allontana dall’assumere il sé stesso reale come entità titolare di diritti.

Chi è tormentato dall’ansia sociale, prevede eventi sfavorevoli, gli eventi non come possibilità, probabilità, ma come evento certo dalle conseguenze persino catastrofiche; i comportamenti evitanti, di fuga o di elusione, appaiono loro come strumenti di difesa. È in quest’ottica che le persone timide adottano il loro tipico comportamento. Nella realtà, così facendo, esse comunicano esternamente la loro condizione per cui, in ultima analisi, ciò che concretizzano, è la rinuncia alla responsabilità di essere ciò che sono da un lato, di liberarsi dei condizionamenti dall’altro. 

In “Il libro dell’assertività” scrivo: ” essere assertivi significa innanzitutto affermare sé stessi, ma comporta anche un’assunzione di responsabilità, senza la quale non c’è indipendenza, libertà, autodeterminazione, affermazione dei propri diritti. Essere assertivi significa operare delle scelte senza subire il peso condizionante degli altri, e ciò non è possibile se non ci si assume la responsabilità dei propri comportamenti“.

Una tale responsabilità va assunta, non tanto nei confronti degli altri, quanto verso sé stessi. Essa va intesa come riconoscimento della personale individualità, come assunzione e accettazione, cosciente e consapevole, della propria personalità e dignità, come affermazione di sé come soggetto sociale, libero e autonomo.

Ma cosa può significare tutto ciò nella vita di chi è oppresso dalla timidezza? 

Significa porre sé stessi nell’alveo della normalità, significa smettere di guardare gli altri come degli “estroversoni”, liberarsi dell’idea di essere incapaci o inferiori, di non sentirsi più meno interessanti degli altri, di essere un pari tra i pari, significa considerare la vita un percorso mutevole e variegato, le cui configurazioni reali sono innumerevoli, che errori e insuccessi – così come i successi – sono parte integrante del quotidiano, che le uniche catastrofi sono quelle naturali o prodotte dalla violenza dell’uomo sulla natura o verso i popoli.

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