L’uomo mira a stabilire relazioni, a delineare una propria identità sociale, ad affermare un proprio ruolo all’interno del gruppo cui appartiene o a cui tende ad appartenervi; aspira a trovarsi nella condizione di poter agire in un ambiente aperto, rassicurante e in cui possa godere della fiducia altrui.
Tali scopi implicano il suo impegno per farsi accettare nel gruppo ed evitare di essere rifiutato o escluso dagli altri.
Proprio qua sta il problema principale riscontrabile nelle ansie sociali.
Nell’interazione relazionale, l’uomo sposta la sua attenzione verso l’interno o verso l’esterno secondo le esigenze che richiedono le situazioni: il suo obiettivo è trasmettere un’immagine positiva di sé.
Nelle persone timide il problema non risiede tanto nel voler dare una buona impressione di sé, cosa che appartiene alla normalità, ma nel fatto che dirigono l’attenzione in direzioni auto referenti: verso sé stesse nell’intenzione di monitorare il proprio comportamento e gli stimoli interni per valutarne la congruità e verificare la presenza di minacce provenienti da sé stesse; verso gli stimoli esterni ritenuti minacciosi per l’immagine di sé.
In breve, la loro coscienza sociale si auto focalizza su aspetti rilevanti per il sé e alla ricerca di conferme delle proprie credenze disfunzionali.
Ciò comporta una notevole riduzione di energie attentive verso il compito, gli altri e il contesto.
Turbato dalle credenze negative che definiscono sé stesso come soggetto inadeguato e gli altri come giudicanti e/o rifiutati, l’individuo timido teme, più di ogni altra cosa, di essere giudicato negativamente, di veder compromessa definitivamente la propria immagine e di essere escluso dal gruppo.
Di conseguenza egli vive nel timore di interagire, visivamente, in maniera ansiosa e di mostrare le proprie debolezze. Tutte cose che appaiono come una grave minaccia al proprio obiettivo di farsi accettare dal gruppo di appartenenza o cui tende a farvi riferimento.
Avvertendo sé stesso come un border-line sociale, l’ansioso avverte il dolore della non appartenenza, la solitudine della propria condizione, ma anche la precarietà della propria identità sociale.
Dato che i comportamenti della persona timida nelle interazioni sono condizionati, o compromesse, dal timore del giudizio negativo, dall’inibizione ansiogena e dal timore del fallimento, la storia della loro interazione è costellata da insuccessi.
La memoria di questi eventi funziona come predittore di fallimenti futuri e dimostrazione di proprie inadeguatezze, accentuando il senso di precarietà dell’appartenenza.
Infatti, essi non valutano i risultati delle loro interazioni in funzione dei fatti contingenti e delle specifiche condizioni emotive, giudicano le interferenze ansiogene come atti volontari, espressione della loro personalità, una loro qualità negativa personale.
Ciò implica una valutazione negativa di sé come persona.
In questi processi metacognitivi, le emozioni (paura), gli stati d’ansia e i pensieri, appaiono come un unico fattore caratteristico della propria personalità, e le dinamiche psicologiche non sono valutate come eventi mentali.
Il tutto confluisce nella definizione della propria identità.
In questa confusione percettiva, l’altro è visto come giudicante ed escludente. In realtà, i comportamenti timorosi ed evitanti dei soggetti timidi, inducono l’altro in una posizione di attesa di un segnale di apertura ma, questa reazione è, a sua volta, interpretata dagli ansiosi sociali come una conferma della loro inadeguatezza o come scelta altrui di esclusione.
Tuttavia, l’ansioso sociale tende all’integrazione all’interno del gruppo. Percependosi inadeguato reagisce rinunciando a determinati ranghi sociali oppure evitando di esporsi in situazioni che lo sottopongono al giudizio degli altri.
Se nel primo caso si sviluppano comportamenti passivi, di sudditanza, di subalternità, di rinuncia ai propri diritti, talvolta anche di auto umiliazione, nel secondo caso i comportamenti evitanti possono assumere forme di auto marginalizzazione ma anche esprimersi in modi provocatori.