Quasi tutte le persone timide, tra le situazioni che procurano loro ansietà, indicano quello di incrociare gli sguardi degli altri. Per molti è vissuto come rapporto di forza e, d’altra parte, per tanti, non riuscire a reggere lo sguardo altrui è dimostrazione di debolezza, talvolta costituisce uno di quei fattori che determinano i livelli gerarchici all’interno di un gruppo o nelle relazioni interpersonali.
Probabilmente è anche il comportamento evitante più diffuso nella popolazione dei soggetti timidi.
Gli occhi sono considerati uno strumento, per certi versi, diabolico. Appaiono ora come avidi lettori dell’intimità individuale, ora come comunicatori della profondità del nostro animo, ora come strumenti di sfida, di resa o di conciliazione.
La percezione di queste loro peculiarità fa degli occhi, organi da amare o temere. Nel caso degli individui afflitti da una qualche forma di ansia sociale, come la timidezza, gli occhi sono sostanzialmente da temere, proprio perché ritenuti capaci di andare al di là dei veli.
Per una persona timida, incontrare lo sguardo di un altro individuo significa, , esporsi al suo sguardo indagatore, e giacché i timidi temono come la peste il giudizio altrui, essa vede nel contatto visivo un grave rischio di giudizio.
Gli individui timidi vivono l’incrociare degli sguardi con un duplice motivo di preoccupazione, da un lato sentono che i propri occhi tradiranno le loro segrete paure manifestando debolezze e inadeguatezze, dall’altro avvertono la presenza di occhi inquisitori, e in quanto tali, pronti a giudizi che anticipano la sua catastrofe.
In miei precedenti articoli, ho trattato di aspetti strettamente correlati a questo, come la sensazione di sentirsi osservati, che per taluni è vissuta addirittura come una certezza. Anche in quei casi gli occhi, e dunque gli sguardi, sono l’elemento invadente che indaga e valuta con cinico distacco, capace di individuare con precisione chirurgica e infallibilità le carenze di chi è osservato.
Nell’incrociare gli sguardi, il soggetto timido, sente che siano in gioco troppi fattori di rischio, non solo teme di trasmettere la presunta pochezza personale o che queste siano intercettate dall’altro, ma pensa anche che la sua inevitabile fuga da quegli sguardi, finisca col costituire un ulteriore elemento che lo presenti come soggetto debole, vigliacco, per certi versi infimo.
In breve, il contatto visivo costituisce per le persone timide una propria sconfitta a 360 gradi, una sconfitta che teme anche di poter leggere negli occhi dell’altro, e pertanto evita di farlo: occhio non vede cuore non duole.
Se essi si sentono nudi e senza difese, è pur vero che, ciò che loro percepiscono come capacità introspettiva altrui e trasparenza di sé, nella realtà è una proiezione all’esterno del proprio percepirsi inadeguati in uno o più campi del vivere sociale.
In quest’ottica, la persona timida, riflette nell’altro la propria immagine speculare, gli occhi dell’altro sono trasformati in un bacile che raccoglie le paure che essa stessa vi ripone, e gli occhi propri sono come una sorta di videocamera che trasmette la propria tragedia.
L’intendere gli altri come intercettori delle presunte insufficienze del soggetto ansioso, è l’espressione della tragicità nel percepire sé stessi con attribuzioni negative, come soggetto fuori dalla socialità reale, come un essere altro da sé e altro rispetto agli altri, come individuo che si auto rinnega, dentro e fuori di sé, pur desiderando la piena accettazione.
Al tempo stesso questo modo di percepire il mondo umano esterno a sé, è anche la chiara risultanza dell’azione, pesantemente condizionante, delle credenze disfunzionali attivate nei processi cognitivi e dei pensieri automatici negativi che intervengono nelle fasi finali di tali processi.
Il timido, sentendosi in una qualche misura inadeguato, si convince che tale insufficienza possa essere facilmente individuata dagli altri e, pertanto, teme fortemente e tenta di sfuggire ogni occasione che possa procurare non solo il rischio che s’intercettino le proprie carenze, ma anche quello di scoprire di essere stato scoperto e di mostrarsi debole: pone in essere l’unico strumento di difesa che conosce, il comportamento evitante.