Sia nella dimensione pubblica, sia in quella privata, le persone afflitte da ansia sociale tendono a focalizzare la propria attenzione sull’onda delle proprie percezioni di sé e degli altri.
Queste dimensioni non sono propriamente disgiunte l’una dall’altra, esse si sovrappongono, s’incrociano, interagiscono.
Nella dimensione pubblica la focalizzazione dei pensieri s’incentra su problemi che riguardano il come si è percepiti dagli altri, quali giudizi e valutazioni possono essere indotti da tali percezioni, quali possono essere i comportamenti conseguenti. Se da un lato l’ansioso sociale si sente osservato dagli altri, dall’altro è osservatore degli altri, cioè cerca di intercettare il senso o il significato di ciò che egli ritiene stiano pensando di sé; lo fa provando a interpretare le forme di linguaggio non verbale (espressioni facciali, gestualità, azioni), lo stesso linguaggio verbale anche quando questo non esplicita i contenuti attesi e preventivati.
Nella dimensione privata, si pone sé stessi al centro dell’attenzione. Le proprie capacità, le abilità sociali possedute, la forza attrattiva, sono i fattori su cui chi soffre di ansia sociale focalizza i pensieri.
I processi cognitivi, su cui si concentra l’attenzione del soggetto timido, non sono caratterizzati da riflessioni articolate o complesse, sembra piuttosto, che s’immobilizzano in una condizione di stallo, che si bloccano in un luogo mentale fisso in cui le attività di pensiero o le immagini cerebrali somigliano a un disco incantato, quasi come se il proprio tempo si fermasse.
Nel momento in cui il pensiero focalizza e blocca l’attenzione su campi così ristretti, si determina un distacco, un’estraniazione, una separazione, della persona ansiosa dalla vita reale e materiale che si consuma nella situazione in cui è coinvolto, l’attenzione s’indirizza sull’esistenza del problema piuttosto che sul fare. È come se, trovandomi dinanzi a un’equazione da risolvere, me ne stessi dicendo continuamente tra me e me che quell’equazione è difficile, senza cercare di ragionarvi su, per trovare la soluzione.
Prendiamo, ad esempio, le scene mute in situazioni di conversazione in un gruppo; in tale contesto, il soggetto ansioso, viene catturato da pensieri che vertono da un lato, sui timori di proprie incapacità o incompetenze, dall’altro sui timori di giudizi negativi altrui; la sua mente si concentra e, nello stesso tempo, s’immobilizza su queste paure o presunte inabilità, finisce con l’estraniarsi dall’evento, oppure con il viverlo passivamente e/o apaticamente: spesso i contenuti delle conversazioni sono associati una valenza del secondaria, fin’anche a essere considerati superflui o banali.
Le persone timide prese da questo vortice, non riescono a uscire da una tale situazione mentale di stallo, data la loro difficoltà di dirottare la propria attenzione cognitiva sui contenuti della conversazione o sugli eventi che nascono contestualmente a essa, ne restano prigioniere.
Nella timidezza, così come anche nelle altre forme dell’ansia sociale, questa condizione può permeare lo stato mentale, anche quando la persona disagiata non si trova in situazioni sociali, ad esempio, è riscontrabile nelle difficoltà di concentrazione nello studio o nel lavoro, nelle difficoltà di apprendimento, nei frequenti fenomeni di distrazione.
Spesso, dall’esterno, sono percepiti come atteggiamenti apatici, frutto di disinteresse o menefreghismo, snobismo.
Alla base di queste focalizzazioni così delineate vi sono, ovviamente, le paure tipiche dell’ansia sociale e, quindi, le credenze disfunzionali e i pensieri automatici a esse collegate.
Per concludere, si può dire che il problema che si pone nei confronti dell’attenzione, nei casi di persone afflitte da ansia sociale, sta nel fatto che questa si delinea come una forma di focalizzazione ossessiva orientata verso le percezioni di sé e degli altri.