Nelle relazioni interpersonali ogni individuo ripone nei comportamenti altrui, delle aspettative e, allo stesso tempo, avverte il peso di quelle che gli altri ripongono nei suoi confronti.
Le aspettative ricoprono un po’ tutti i campi dell’agire umano. Hanno un ruolo fondamentale nella formazione delle credenze soprattutto nel periodo neonatale. L’infante, infatti, comincia a formare i primi modelli interpretativi della realtà, riguardanti sé stesso e gli altri, in funzione di come le figure di riferimento (caregiver) soddisfano proprio le sue aspettative.
Anche tante scelte nel nostro operare nei confronti di altre persone, avvengono in risposta al grado di soddisfacimento dei comportamenti che ci attendiamo dai nostri interlocutori.
Le aspettative che riponiamo nei confronti degli interlocutori sono l’espressione di nostri bisogni, desideri, aspirazioni, sia nella dimensione sociale sia in quella individuale, che per ragioni varie, non siamo in grado o non possiamo soddisfare autonomamente.
I bisogni primari e quelli di accettazione, affettività, cura e conforto, ci spingono a cercarne l’appagamento nei vari ambiti sociali in cui possono essere esauditi.
Ovviamente le aspettative sono da noi concepite nelle forme e nelle modalità espresse dai nostri schemi mentali, dal personale modo di pensare, e implica che, non solo desideriamo il soddisfacimento dei nostri bisogni, ma che questi siano concretizzati in uno stile o in un linguaggio che è nostro, personale.
In parole povere ci aspettiamo, dall’altro, che faccia o dica cose, in modo identico o molto simile, a quello che noi riteniamo debba fare.
La tendenza a far coincidere le aspettative con la nostra personale idea espressa anche nella forma e nel modo, delinea un interlocutore, il cui comportamento atteso, sia espropriante la sua identità, cultura, indole, stile operante.
Tale fenomeno è comune a tutte le persone, ma nei soggetti anassertivi o afflitti dalle varie forme di ansia sociale, assume carattere di maggiore rigidità.
Chi ha letto il mio libro “Addio timidezza” avrà già avuto l’occasione di comprendere più compiutamente e nel dettaglio, in quali forme e tipi di pensiero disfunzionale si riscontrano le problematiche generate da aspettative vissute nei modi che ho appena descritto.
Non c’è dubbio che il coinvolgimento emotivo, che per sua natura tende a sfuggire da valutazioni razionali, gioca un ruolo determinante proprio per l’intensità emozionale, con la quale viene vissuta e attesa, un’aspettativa riposta verso l’interlocutore.
Quello che accade, è che le persone non tengono in considerazione il fatto che l’interlocutore è caratterizzato da un proprio stile di vita, modo di pensare, di reagire agli eventi, che ha una propria percezione degli altri e di sé stesso, che ha propri schemi mentali e culturali, egli è cioè diverso.
La diversità non è un fatto teorico, è cosa molto concreta, e fa sì che ciascuno di noi agisce seguendo i valori, le valutazioni, gli schemi mentali personali.
Di fronte a un’aspettativa non soddisfatta, in condizioni normali, la persona delusa riesce, prima o poi, a farsene una ragione o ad accettare la realtà. Diversamente, il soggetto timido, l’ansioso sociale in generale, difficilmente riesce ad accettare lo stato delle cose, è pervaso da continue ruminazioni, può nutrire sentimenti di rancore di lunga durata nei confronti dell’altro, avvertire sentimenti di rigetto o rifiuto.
L’ansioso sociale, lega rigidamente l’aspettativa ai propri schemi individuali a tal punto che gli riesce assolutamente incomprensibile, oltre la non accettabilità, ciò che per lui è un’inadempienza. Egli tende a non tenere in nessun conto la diversità dell’altro, perché l’attenzione riposta nell’aspettativa è concentrata solo verso la propria direzione.
La condizione psicologica che vive l’ansioso sociale, lo spinge a sentirsi vittima di comportamenti egoistici, discriminatori, isolazionisti, manipolatori. Sentendosi costantemente escluso o ignorato, vive la mancata soddisfazione delle sue attese, come conferma di quelle credenze che lo inducono a pensare a un mondo ostile, agli altri come soggetti non disponibili nei suoi confronti.
Osserva la diversificazione dei comportamenti, confrontando quelli attuati nei suoi confronti e quelli verso gli altri, e li interpreta come dimostrazione di atteggiamento discriminatorio nella sua direzione ma, quest’osservazioni non tengono conto delle diversità di contesto, di tempo, di astrazioni selettive.
Diversa è la problematica quando un’aspettativa non è propria, ma proviene dagli altri. In questi casi la persona timida avverte il peso delle aspettative altrui in funzione, da un lato, della valutazione che fa delle proprie abilità o capacità nel far fronte a tale affidamento, dall’altro alla previsione di un insuccesso e delle conseguenze che ne possono derivare.
A farla da padrona è il timore di deludere gli altri, di mostrare di non essere all’altezza dei compiti affidatigli, di essere giudicato negativamente. Generalmente, di fronte alle attese altrui, il soggetto timido si blocca, precipita in una condizione di stallo.
Non sempre, però, ci sono delle attese reali da parte degli altri, spesso accade che tali affidamenti siano solo frutto di supposizioni generati dalle credenze disfunzionali attinenti sé stessi o gli altri, di disfunzioni cognitive come, ad esempio, la lettura del pensiero. Quest’ultimo fenomeno, e il cosiddetto “mito dell’amico“, sono tra gli errori procedurali più comuni che possono verificarsi in questi tipi di circostanze.