L’amore è senz’altro un problema scottante per chi è preda della timidezza. Quando ci si vuole approcciare ad una persona dell’altro sesso, nella mente di chi è timido/a, si affacciano pensieri che suggeriscono solo vie di fuga, di rinuncia. La paura prende corpo e si presenta in molte forme, l’ansia è una di queste, e spesso è l’unica che il soggetto percepisce in modo chiaro ed evidente: il rossore al volto, il sudare freddo, sensazioni viscerali, tremori, il senso di oppressione al petto.
Paura ed ansia si alleano costituendo un cocktail micidiale che si ferma solo con l’evitamento.

De Chirico: pianto d’amore

Cosa pensa chi è timido/a in queste situazioni? Sono diversi i pensieri e le considerazioni che possono venire in mente, facciamo qualche esempio:

non le/gli piaccio
sono brutto/a
se mi dice di no?
di sicuro non appaio interessante
penserà male di me
mi renderò ridicolo/a
ma io non ci so fare
sono vuoto/a
che gli/le dico? non ho niente da dire
magari mi riderà in faccia e diventerò il balzello di tutti
se va male che figura ci faccio…. come potrò farmi vedere in giro
e se non mi pensa proprio?
mi farò rosso/a come un peperone e farò una figura di merda
e se mi metto a balbettare? Che vergogna!
non sono abbastanza abile per questo
e se si accorge che sono imbranato/a?
non sono all’altezza della situazione
che diranno gli altri quando sapranno che mi ha respinto/a?
che farò, gli altri giorni, quando la incrocerò per strada, dopo che mi avrà detto di no?
Ma perché dovrebbe interessarsi ad uno/a come me?
Sono una frana
Quelli come me non interessano a nessuno
Sono troppo diverso, per essere accettato
Mi rifiuterà perché non sono alla moda
Non sono neanche divertente
Non sono cinico come gli altri, non l’attirerò mai
Non appartengo al suo mondo, lei/lui è attratto/a da altri tipi

I sentimenti, che queste persone, nutrono verso se stessi sono di due tipologie principali, l’avere una cattiva opinione di sé, ed il sentirsi culturalmente ed eticamente troppo diversi.
Nel primo caso, la bassa autostima li fa sentire come persone non amabili, non idonei, non abili, dotate di scarse capacità relazionali e/o intellettuali, una sorta di esseri inferiori, delle nullità, dei falliti, dei buoni a nulla, dei soggetti vuoti, privi di ricchezze interiori.
Nel secondo caso, si ritengono spesso come portatori/trici di valori incompresi, non apprezzati o non confacenti alla cultura di massa da cui essi si distaccano, un po’ come dei Don Chisciotte dell’era moderna. In realtà è una reazione ad una condizione di isolamento sociale più o meno marcato.
In ambedue i casi si sentono non attraenti, non interessanti, non confacenti ai modelli sociali dominanti.
Per comprendere questo fenomeno, bisogna però fare qualche passo indietro nel tempo.
Oltre a quelle di tipo traumatico, le cause principali sono da rintracciare soprattutto nella prima infanzia, in ambiti familiari disattenti nei confronti dei bisogni di attenzione e cura del bambino che sviluppa un’idea di sé come non amabile, che non suscita negli altri sufficienti sentimenti di amorevolezza, di interesse, di disponibilità oppure di essere un soggetto non affidabile, incostante, falso, non meritevole di fiducia. Parimenti anche l’idea che il bambino si fa degli altri, ricalcano schemi analoghi, per cui egli è portato a considerare che essi non siano disponibili nei suoi confronti, che non lo considerano attraente, non dotato di sufficienti abilità di relazione, non credibile.
Purtroppo molti genitori hanno attese, dai propri bambini, estranee al loro modo di percepire il mondo, pretendono che essi comprendano e ragionino non come bambini ma come adulti. Con questa logica e di fronte alla mancata corrispondenza alle loro attese, i genitori attuano comportamenti di censura, di rimprovero, di accusa e di giudizi severi che vanno a rafforzare, nel bambino, quelle credenze di base che si è formato. Fattori che possono anche sfociare in disturbi comportamentali
Benché questi schemi cognitivi si siano costituiti, nella loro struttura di base, nella prima infanzia, i nodi al pettine cominciano ad emergere soprattutto nel periodo dell’adolescenza, quando il bambino inizia ad abbandonare la “visione” e la logica infantile ed a disegnare una propria identità non solo come individuo caratterizzato ma anche come soggetto sociale. In questo periodo le credenze, che erano state in un certo senso schermate dalla condizione fanciullesca, acquisiscono vigore e vita, permeando così il carattere, il pensiero e le convinzioni dell’adolescente. È proprio in questa fase che si delinea quella che sarà la personalità dell’individuo adulto.
Le considerazioni che fa una persona timida quando si relaziona ad un’altra dell’altro sesso sono pertanto frutto delle proprie credenze cognitive che ha sviluppate negli anni pregressi.
L’insicurezza, la bassa autostima, il timore dei giudizi altrui che caratterizzano i pensieri, sono gli elementi che conducono ad una valutazione previsionale degli eventi in chiave negativa. Il timido o la timida, in queste situazioni, non  prendono in considerazione la possibilità di esiti positivi, farlo significherebbe invalidare le proprie credenze, negare l’idea di sé o relativa agli altri, abbandonare di colpo la visione personale delle cose senza trovarne, nell’immediato, una alternativa che la sostituisca.
In realtà non è la capacità di pensare, ad essere inabile nell’ elaborare una diversa prospettiva di valutazione, ma è il sistema cognitivo che si attiva in una modalità di autodifesa per bloccare ogni elemento che possa invalidarlo. In termini più semplici, possiamo dire che l’io inconscio ferma l’io conscio.
Di questo aspetto ne parlo più compiutamente nel mio libro “Addio timidezza”.
Il risultato, dinanzi a questa presunta impossibilità di successo nella ricerca dell’amore, è l’evitamento, la rinuncia ad una azione desiderata, ad un progetto agognato, ad un bisogno umano e naturale.
A favorire un tale comportamento, intervengono anche i fenomeni fisiologici di cui ho accennato in apertura, infatti il comportamento evitante è la risultante di un processo di fattori concatenati e sequenziali in cui quelli fisiologici costituiscono l’ultimo anello della catena.
Tutto questo, purtroppo, ha anche un’altra conseguenza di cui il soggetto timido non ha alcuna coscienza: dopo che il comportamento evitante viene attuato, i fenomeni fisiologici e psicologici cessano di manifestarsi, per il sistema cognitivo ciò rappresenta una ulteriore conferma della validità delle proprie credenze, costituisce quello che viene chiamato rinforzo; questo si può verificare nuovamente nei momenti successivi se (ed avviene spesso) l’individuo autore dell’evitamento tenta una analisi di razionalizzazione rimuginando su quanto accaduto e facendo considerazioni che giustificano la validità della propria scelta evitante, con pensieri del tipo: non c’è l’avrei fatta, non era il tipo per me, mi sono risparmiato/a un’umiliazione, ho evitato di far ridere le mosche, ecc. In realtà, la “razionalizzazione” non è poi tanto razionale ed è un’operazione ancora una volta indotta dall’apparato cognitivo.
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