Già dalla nascita l’essere umano organizza le proprie esperienze in strutture mentali che hanno il compito di: 

  • Governare l’elaborazione delle informazioni.
  • Generare le rappresentazioni del mondo.
  • Generare condizioni, aspettative e azioni.

Mariarita Renatti – follie

Queste strutture sono chiamate schemi e ciascuno di essi è costituito da un insieme d’idee e convincimenti legati da un filo tematico comune, organizzati in modo gerarchico, che generano interazioni reciproche tra loro.


In pratica, uno schema è un insieme di credenze e metacognizioni interagenti, che si attivano in risposta a una tipologia comune di stimoli.


L’insieme degli schemi costituisce il sistema cognitivo.


Quando degli individui stanno per entrare in relazione tra loro, in ognuno di essi, nella loro mente, si sono già attivati degli schemi che rappresentano il modello di sé, quello dell’altro e quello della relazione tra sé e l’altro o gli altri: tali schemi sono, infatti, chiamati schemi interpersonali.


Uno schema interpersonale, in quanto luogo della elaborazione dell’esperienza, esprime la memoria delle relazioni e, pertanto, non conserva solo la memoria delle rappresentazioni del sé e degli altri, ma anche la memoria sensoriale ed emotiva delle esperienze relazionali con le quali si sono costruite le credenze e le metacognizioni.

Ciò significa che uno schema interpersonale, conservando la memoria emotiva e sensoriale delle esperienze relazionali, attivandosi, non fa entrare in gioco solo i modelli relazionali costituitesi, ma attualizza anche le esperienze emotive e sensoriali.


L’idea dell’altro, dunque, fa parte di un modello di riferimento generico che il nostro sistema cognitivo attiva nel momento dell’interazione sociale, con l’obiettivo di valutare, servendosi delle capacità di previsione, le opzioni comportamentali che meglio soddisfano i bisogni, le aspettative e gli scopi.


Potremmo concludere dicendo che una relazione interpersonale inizia già prima della relazione stessa. Cioè inizia già con l’attivazione degli schemi interpersonali.


Abbiamo visto che credenze, metacognizioni e schemi interpersonali sono il risultato dell’esperienza relazionale sia in termini formali, sia in termini emotivi e sensoriali.


Basta questo a farci comprendere come le credenze del sé, dell’altro e dell’interazione tra sé e l’altro, subiscono l’influenza del modo emotivo e sensoriale dell’assorbire le informazioni provenienti dalle esperienze.


È opinione condivisa che questi primi costrutti cognitivi si formino già nei primissimi anni di vita e, durante tutta la fanciullezza e la prima adolescenza, si rafforzano significativamente quando si vive in ambienti sociali anassertivi e disattenti, oppure si aggiornano e si flessibilizzano nel vivere in ambienti assertivi e includenti.


La timidezza, come tutte le forme di ansia sociale, esiste in ragione di credenze negative del sé e/o dell’altro; ed è caratterizzata da schemi interpersonali, orientati alle polarità negative, che si sono formati in ambienti sociali anassertivi e/o disattenti.


Il rafforzamento e la rigidità delle credenze e delle metacognizioni negative favoriscono il determinarsi dei cicli degli schemi interpersonali e, questi, a loro volta, si auto alimentano e auto perpetuano nel tempo. 


Infatti, possiamo dire che un ciclo interpersonale disadattivo è tale quando le previsioni negative attivano dinamiche comportamentali e relazionali che confermano lo schema interpersonale che le ha generate.


Ma che idea dell’altro va a costituirsi nel caso delle ansie sociali e della timidezza?

Gli ambienti sociali anassertivi e distratti favoriscono il formarsi di credenze del sé come soggetto inadeguato o non amabile, di credenze dell’altro come indisponibile, escludente, inaffidabile, di credenze sulla relazione tra sé e l’altro come labile o inconsistente.

Nella persona timida che si sente inadeguata si attivano schemi e cicli interpersonali che producono comportamenti inefficaci e non funzionali per una buona vita sociale. Gli altri, che adottano comportamenti funzionali alla socialità, non comprendono il senso e il significato dei comportamenti disfunzionali o, in altri casi, li interpretano in termini di segnali di risposta negativa. Il risultato è la tendenza a emarginare il soggetto timido.


In queste situazioni, l’ ansioso sociale, avvertendo il formarsi di una distanza tra sé e gli altri, rafforzano le proprie credenze riguardo al sé inadeguato o non amabile, ma comincia a percepire l’altro come chiuso all’integrazione sociale. 


L’altro rappresenta al tempo stesso speranza e desiderio di appartenenza sociale da una parte, e una dichiarazione di non appartenenza dall’altra.


Nell’individuo timido che ha sviluppato credenze sull’altro come indisponibile, escludente, umiliante, si attivano schemi e cicli interpersonali che producono comportamenti che trasmettono, all’esterno, sensazioni di antisocialità. Anche in questo caso il risultato è la marginalizzazione sociale.


La percezione di non appartenenza sociale che proviene dalla marginalizzazione che subisce, rafforza l’idea dell’altro come soggetto inaffidabile, da tenere sotto controllo, indisponibile ed escludente.


Il mondo degli altri appare come un ambiente inospitale, pieno di insidie, ma anche una sorta di Sodoma e Gomorra in senso lato.


Ma l’altro continua a rappresentare, anche se spesso in modo inconsapevole, speranza e desiderio di appartenenza sociale, ma, per altro verso, una non appartenenza ambivalente, e ciò anche per via del sentimento di risentimento che si sviluppano in questi ansiosi sociali.


In un certo senso l’altro è un mondo misterioso e, in quanto tale, manifestazione di incertezza della realtà. E si sa, gli ansiosi sociali, le persone timide, sono allergiche all’incertezza, all’ambiguità, all’indeterminazione.

 

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