È un dilemma antico che tutti si pongono, ma negli ansiosi sociali assume vero e proprio carattere esistenziale.
Se nei soggetti normali l’apparire è finalizzata agli obiettivi senza significativo coinvolgimento emozionale, negli ansiosi l’aspetto emotivo è predominante e vincolante. Mentre nel primo caso il bisogno, la necessità o la scelta dell’apparire è legata a pensieri funzionali, orientati cioè alla definizione di comportamenti che producono vantaggi sostanziali, nei secondi, i pensieri sono disfunzionali e orientati a definire comportamenti finalizzati al controllo degli stati d’ansia e dei sentimenti di paura e preoccupazione.
Per una persona timida, l’essere implica fare emergere, in modo inequivocabile, tratti caratteriali della personalità, doti e capacità che essa giudica negativamente pertanto, inconsciamente, ha fondamentalmente paura che gli altri si accorgano di quelle carenze, incapacità e difetti che essa stessa ritiene di avere.
Una tale implicazione è, dunque, considerata un rischio perché rende nudi all’esterno, privi di strumenti di difesa o di garanzia. Gli individui afflitti dall’ansia sociale, dinanzi all’ipotesi di scegliere l’essere, “temono di rendere evidente, all’esterno, ciò che considerano la propria natura, di apparire deboli, “diversi”, fuori dai ranghi sociali, un’entità estranea che quasi invade spazi e tempi non propri, temono di incorrere nella valutazione e nel giudizio altrui ……. L’oggetto di questi giudizi negativi coincide, sistematicamente, con l’idea che la persona timida ha di sé stessa: è come se negli altri leggesse la sua immagine riflessa“. [Luigi Zizzari, Addio timidezza]
Nel momento in cui l’essere diventa sinonimo di rischio o del sentimento di perdita, il soggetto timido reprime la propria soggettività, nel tentativo di nascondere quelle che ritiene le proprie prerogative negative. Il risultato è, però, sempre insoddisfacente. La timidezza non può essere nascosta e, paradossalmente, proprio le strategie poste in atto per nasconderla, la rendono ancor più evidente.
Gli individui timidi vivono la mancata manifestazione del proprio essere come oggetto dell’apparire, ma nei comportamenti evitanti, elusivi o protettivi, essi non attuano una strategia o forme proprie dell’apparire, ciò che si concretizza in realtà, è sia il non essere, sia il non apparire.
Resta comunque, in loro, il problema dell’essere, vissuto, sentito, percepito come negazione della propria identità ma soprattutto della propria libertà.
La mancata manifestazione e godimento dei sentimenti, emozioni, aspirazioni, pensieri e idee, pur se figlia delle proprie scelte e dei propri comportamenti, costituisce una camicia di forza che è avvertita in virtù dei risultati negativi provati sulla propria pelle: una persona non si libera della propria timidezza ponendo in atto, proprio, quei comportamenti che questa induce a concretizzare.
Dunque l’essere, da una parte, come esplicitazione della propria condizione, è considerata una condanna all’emarginazione sociale, dall’altra come affermazione della soggettività è avvertita come un’aspirazione negata dal contesto sociale.
Nella sua funzione esplicitante, l’idea dell’essere, induce a considerare l’apparire come una necessità di protezione per sfuggire al rischio, considerato una certezza, delle valutazioni negative altrui.
Nella funzione affermativa dell’identità, l’essere è visto come un diritto negato, l’individuo timido si sente obbligato a rinunziarvi per via del peso rilevante che assume l’insieme dei costumi culturali dominanti della società, culture ritenute escludenti, isolanti e che, pertanto, attraverso l’uso del giudizio, lo emarginerebbe. Nella mente della persona timida, la rinuncia all’essere finisce con il corrispondere all’obbligo dell’apparire, si sente costretta verso questa scelta e percepisce il proprio comportamento come espressione della funzione dell’apparire.
In realtà anche il suo tentativo di apparire è del tutto effimero, come dicevo precedentemente, la timidezza non può essere invisibile.
Nonostante ciò, la persona afflitta da ansia sociale, vive ciò che considera il proprio apparire con grande sofferenza e conflittualità; la sua aspirazione, il desiderio, è essere sé stessa, anche perché avverte, l’inefficacia del suo apparire, la relatività temporale e contingente dei risultati, l’innaturalezza del proprio agire.