“Divento sempre più asociale”, “mi sento un asociale, non sono mai riuscita/o a integrarmi”, “l’apatia mi rende asfittica/o”, “sono un asociale, infatti, sono uno sfigato”, “sono una persona che non socializza”, “sono sempre sola/o, davvero un asociale”, “non riesco a relazionarmi agli altri”.
Sono alcuni dei modi di descrivere il percepirsi come persona asociale. Talvolta, le persone timide sono tacciate come tali, ciò accade anche per tanti individui afflitti da altre forme di ansia sociale.
Spesso, si fa confusione sull’uso stesso di questa parola.
L’asociale è, per definizione, un individuo insensibile ai problemi, alle occorrenze, ai bisogni che si manifestano nella vita sociale degli altri.
Si tratta di un’insensibilità che corrisponde a una precisa scelta volontaria del soggetto, una scelta non indotta da problemi d’interazione, ma da vero e proprio disinteresse personale verso gli altri, egli non è materialmente interessato.
L’ansioso sociale, quindi anche la persona timida, ha esigenze completamente opposte all’asociale. Aspira ad avere una vita sociale, avverte un profondo bisogno di appartenenza, di essere e sentirsi parte della comunità e di poterne avvertire l’accettazione.
Lo stato di emarginazione, di marginalizzazione, d’isolamento verso la vita sociale e di solitudine, è per gli individui timidi, una condizione, non una scelta.
Benché gli ansiosi sociali abbiano la tendenza ad auto isolarsi, a evitare di vivere o di trovarsi in situazioni sociali, vivono tale stato di cose con molta sofferenza.
Diciamolo chiaramente. Gli ansiosi sociali non sono asociali.
Il problema si pone in quanto essi mostrano concrete difficoltà a interagire con gli altri.
Le cause di questa problematicità nel vivere il mondo delle relazioni interpersonali sono variegate.
Il mancato apprendimento
Una di queste cause è il mancato apprendimento di modelli di relazionamento sociale. Questo è un fattore che scaturisce soprattutto quando si cresce in un ambiente familiare anassertivo, con genitori iperprotettivi, possessivi, repressivi, che non hanno permesso al bambino di relazionarsi a sufficienza con i propri pari, che hanno represso la manifestazione di stati emotivi. Il bambino cresce senza avere riferimenti, né la possibilità di raffrontarli in un contesto d’interazione.
Le credenze
Le credenze sul sé come persona inadeguata a vario titolo, costituiscono un altro fattore che inibisce le possibilità espressive e relazionali. Percepirsi come incapace, inabile, non desiderabile o non amabile, implica lo sviluppo di un forte timore del rifiuto e del fallimento nei tentativi di relazionamento sociale. Percependosi incapace il soggetto timido è schiacciato da pensieri previsionali che profetizzano l’insuccesso, il rifiuto, il giudizio negativo degli altri, l’errore catastrofico, la brutta figura.
Il comportamento evitante
L’idea dell’incapacità e la paura di esiti negativi, determinano un connubio assai potente che sfocia nell’evitamento o nell’inibizione ansiogena. Il comportamento evitante è, al tempo stesso, una conseguenza dei fattori precedentemente indicati e una causa dell’apparente asocialità degli ansiosi sociali.
L’evitamento è un coping (comportamento di fronteggiamento) adottato per far fronte alle forti pressioni interiori generate dei pensieri automatici negativi (soprattutto quelli previsionali), dalle emozioni negative (in primo luogo paura e vergogna), dall’insorgere dei vari sintomi dell’ansia.
Gli individui timidi evitano di essere coinvolti in situazioni che temono di non essere in grado di gestire con efficacia e che, al contempo, ritengono possano contenere rischi tali da procurare danno a sé stessi o agli altri.
La sopravvalutazione del pericolo, l’esagerata previsione negativa degli esiti e il timore di una sofferenza considerata insopportabile sono, dunque, gli elementi centrali del comportamento evitante.
Visti da fuori, tali atteggiamenti possono apparire incomprensibili o come espressione di tendenze asociali, di snobismo, d’impulsi di superiorità. Per contro l’ansioso sociale vive le conseguenze dei propri comportamenti evitanti con sensi di colpa e come dimostrazione di proprie inadeguatezze fino ad autodefinirsi asociale.
L’inibizione ansiogena
Anche l’inibizione ansiogena è sia causa che conseguenza della asocialità percepita sia esternamente che internamente. Essendo un fenomeno che limita, o blocca del tutto, le capacità espressive e/o operative del soggetto ansioso, l’inibizione ansiogena induce a comportamenti di apparente assenza.
Le scene mute durante le conversazioni, l’estraniazione mentale in situazioni sociali, l’assenza di gestualità, le mimiche facciali rigide o inespressive, sono tra gli effetti visibili all’esterno dell’inibizione ansiogena ma che danno anche l’impressione di comunicare una non intenzione di comunicazione e, dunque, di atteggiamenti asociali. Nella realtà, sappiamo bene che l’inibizione ansiogena non è una scelta volontaria del soggetto ansioso che, anzi, non è in alcun modo in grado di controllare.
In conclusione
Possiamo affermare che la percezione di asocialità di un individuo afflitto da forme di ansia sociale è da considerare un errore cognitivo.
L’ansioso sociale non si relaziona (o lo fa in modo insufficiente) agli altri perché oggetto di una condizione psichica che gli impedisce di manifestare il proprio sé e, tuttavia, ambisce fortemente a uno stato di appartenenza sociale.