La timidezza è un disagio psichico, di natura cognitiva, che si determina nel dominio dell’interazione sociale. 

Lucia Schettino – L eccezione consiste semmai nella maggiore intensità

Si manifesta con comportamenti evitanti o viziati da inibizione ansiogena.

Si caratterizza, per i flussi di pensieri negativi, che attraversano la mente, e riguardano il sé, gli altri o il mondo sociale; per le emozioni che comportano l’attivazione di sintomi fisiologici dell’ansia.

Va detto, però, che una definizione definitiva della timidezza, non si è ancora raggiunta, per via di un’ampia gamma di forme, ambiti sociali di attivazione, intensità e frequenza delle sue manifestazioni.

Infatti, non è sempre chiaro il confine tra timidezza e fobia sociale o disturbo evitante della personalità, tra disagio e patologia; i tratti dell’uno si confondono spesso con quelli dell’altra.

Generalmente, è considerata una forma di ansia sociale non patologica. Tuttavia forme di timidezza cronica lasciano, comunque, il sospetto che possano essere disagi patologici.
La sua natura cognitiva e le tipologie delle cognizioni interessate sono comuni anche ad altre forme d’ansia sociale. 

Perché, allora, la timidezza non è considerata una forma patologica? 

La differenza è, innanzitutto, nella frequenza e intensità sia nei processi cognitivi, sia nelle manifestazioni emotive e ansiogene; poi nel livello di “radicalità” di determinati comportamenti e processi mentali. Potremmo quasi dire che, in questo campo, il patologico subentra quando l’eccesso è eccessivo.

Ma perché si diventa timidi? 

Ho poc’anzi affermato che la timidezza è di natura cognitiva, ed è in questo dominio che va ricercata l’origine della sua formazione.

Si può affermare che la timidezza nasce quando la mente interpretata le esperienze traendone verità emotive, piuttosto che interpretare la realtà oggettiva.

Ma la cosa è assai più complessa e coinvolge il dominio della descrizione (interpretazione, valutazione e previsione), il dominio dell’azione (decisione e comportamento), il dominio della biologia (corpo, sistema nervoso, emozioni, ansia), il dominio dell’interazione sociale, il rapporto con le proprie esperienze interiori.

Facciamo una breve premessa. La mente dell’uomo, per far fronte a bisogni, necessità e scopi, si organizza costruendo un apparato mnemonico di base che è, allo stesso tempo, un insieme di descrizioni (o definizioni) e interpretazioni del sé, degli altri e del mondo.

Questo costituisce l’insieme delle informazioni di base che serve alla nostra mente per avere riferimenti di riconoscimento delle cose e degli eventi in modo da svolgere le sue attività elaborative di valutazione, previsione e decisione.

Si tratta, dunque, di cognizioni che vanno a costituire i convincimenti di base (dette anche credenze) su cui l’uomo poggia ogni sua attività.

Orbene, quando la mente, per interpretare e valutare un evento, una situazione o un comportamento, attinge informazioni di base a una o più credenze che definiscono il sé o gli altri come inadeguati, si determina uno stato di allarme e preoccupazione che caratterizza la natura dei pensieri, dei ragionamenti e dei conseguenti comportamenti.

Tutto ciò è dovuto dal fatto che nel momento in cui il soggetto timido valuta negativamente le proprie capacità e abilità di far fronte, con efficacia, alla situazione che si profila, vede sé stesso come perdente, proiettato verso un inevitabile insuccesso dalle conseguenze nefaste.

La timidezza non è un fenomeno che si forma di punto in bianco, ha un periodo di “incubazione” che può andare da pochi anni (l’infanzia) a tempi molto più lunghi.

Nella maggior parte dei casi comincia a manifestarsi concretamente con l’inizio dell’ adolescenza quando, cioè, si entra in una fase in cui l’essere umano ridisegna la propria identità personale e sociale.

Il periodo che ho descritto come di incubazione, corrisponde a quella fase della vita in cui l’interazione con l’ambiente (soprattutto quello familiare) ha prodotto esperienze reiterate vissute emotivamente con sofferenza. 

Genitori disattenti, distaccati, estremamente severi o ipercritici, anassertivi, ansiosi, inducono la mente dell’infante o del fanciullo a costruire credenze del sé o degli altri che fanno riferimento al concetto di inadeguatezza, di difettosità innata, di non amabilità. Anche le situazioni di abbandono, comprese quelle temporanee, vanno a favorire la costituzione di tali credenze. [Vedi esempi]

Nei primi 10-12 anni di vita, il nostro cervello non si è ancora strutturato a sufficienza per reagire agli stimoli negativi in modo costruttivo ed efficace. Non si è nelle condizioni di potersi difendere e, quindi, di invalidare i costrutti cognitivi negativi che si formano. Pertanto, le esperienze vissute emotivamente e con sofferenza, sono assimilate come portatrici di definizioni del sé e degli altri in chiave negativa. 

La reiterazione di queste esperienze di sofferenza rafforza e radicalizza le credenze disfunzionali che si sono andate a costituire.

Quando la timidezza si è conclamata, ogni evento e situazione che attiva credenze negative mette in moto un intero processo cognitivo disfunzionale. 

Nel tempo, la persona timida, nel tentativo di difendersi e fronteggiare le situazioni ansiogene, elabora un secondo livello di credenze, che entrano a far parte del dominio delle metacognizioni, che si caratterizzano secondo diverse tipologie funzionali. 

Le metacognizioni vertono su due canali principali, la regolamentazione dei comportamenti e gli stili mentali di fronteggiamento. Ci troviamo, così, di fronte alle credenze condizionali, a quelle doverizzanti, alle assunzioni e a stili di fronteggiamento come il rimuginìo, la ruminazione, la preoccupazione.

Le metacognizioni, nella timidezza, fungono da strutture di sostegno, rinforzo e giustificazione delle credenze di base. Dunque, sono funzionali al mantenimento di tutte quelle condizioni che permettono la sussistenza dello stato di timidezza.


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