Il coinvolgimento emotivo tende a investire la persona timida in tutti gli ambiti sociali, negli eventi e nelle situazioni in cui, in qualche modo, sente o ritiene di farne o di doverne far parte.

Joan Miro – La finestra di avviso

Quando alla base delle sue disfunzioni cognitive c’è il problema dell’accettazione, il soggetto timido è spinto in una continua verifica del livello di gradimento, di accoglienza e disponibilità da parte dei gruppi sociali e delle persone cui si riferisce. 

Questo continuo verificare per vedere se si è accettati dagli altri, induce l’ansioso sociale a considerare un’ampia varietà di situazioni, eventi e comportamenti altrui come strettamente correlati alla propria persona. Egli non riesce a separare gli eventi sociali da sé.

L’idea che gli altri abbiano una propria vita privata, costituita da una pluralità di relazioni sociali indipendenti tra loro, che abbiano una propria autonomia, una varietà d’intenti, interessi e obiettivi, è cosa che l’ansioso sociale non annovera tra le ipotesi interpretative degli eventi oggetto del suo indagare.

In tali situazioni, l’attenzione delle persone timide non è orientata all’oggettività delle situazioni e dei comportamenti altrui, è incentrata su sé stessi, sulla relazione tra essi e gli altri, sulla percezione di sé come soggetti immeritevoli di accettazione sociale.

La loro interpretazione degli avvenimenti è caratterizzata da personalizzazione degli stessi, intesa come risposta altrui nei propri confronti. Esse sono condizionate dai loro timori, non si tratta d’interpretazione della realtà oggettiva, ma dell’intendere emotivo del reale.

Il mancato invito a un evento, la scarsa attenzione relazionale proveniente dagli altri, e altre situazioni similari, costituiscono – per le persone timide – una dimostrazione di rifiuto sociale: esse si sentono emarginate, ignorate, considerate di scarso valore, non importanti, non amate.

Il sentirsi esclusi dai momenti sociali rimanda a credenze di base, il cui modello di riferimento è attinente all’idea dell’imperfezione, dell’essere sbagliati, dell’essere inabili nelle relazioni interpersonali, dell’essere incapaci di gestire le situazioni sociali.

Questi tipi di credenze implicano, nel dispiego delle attività cognitive o nel collegamento ad altre credenze, il non essere appetibili, interessanti o attraenti come persona, non meritevoli di accettazione o di amore.

Nella timidezza il timore recondito è il rischio che quanto si ritiene o si teme di essere, che l’inadeguatezza che si crede di avere, possa essere scoperta, visibile e giudicata vera dagli altri. 

Questo pericolo assume significato portante. Le conseguenze implicite o automatiche previste sono catastrofiche: la solitudine, l’isolamento, l’emarginazione o il rifiuto sociale, il fallimento di sé come persona, il disvalore di sé.
Tali fattori sono, dunque, essenziali anche per la determinazione del proprio livello di autostima. 
Infatti, l’individuo timido è fortemente dipendente dalle opinioni altrui e dall’essere presi in considerazione in tutti gli eventi e gli ambiti sociali.

Una delle ragioni per cui non può infischiarsi dell’opinioni altrui è la sua convinzione che l’accettazione da parte della massa sia essenziale per stare bene se non, addirittura, per la sua esistenza.1

Una tale dipendenza dalle reazioni altrui fa sì che la persona timida tende a ritenere che gli altri abbiano l’obbligo etico o morale di tenerla sempre in considerazione, per qualsiasi evento o situazione, sempre e comunque. 
Spesso ciò si tramuta anche in rigide aspettative che il timido ripone negli altri, ritenendo che questi debbano essere fortemente empatici o essere addirittura capaci di leggere nel loro pensiero e percepirne desideri, bisogni e intenzioni. 
Quest’ultimo modello logico è descritto da Ellis, che li annovera tra le distorsioni cognitive, col nome di “mito del vero amico”. 

Il venir meno delle attese riposte nei confronti degli altri, diventa spesso oggetto di rancore e di rabbia nei confronti di questi. Il sentirsi rifiutati o ignorati induce i soggetti timidi ad attribuzioni di causa o significato, dicotomiche o arbitrarie: tendono ad assumere motivazioni di comportamenti, non confacenti alle proprie attese, come frutto d’intenzioni negative, e ciò, indipendentemente dai reali motivi e intenzioni altrui.

Note:

nota 1: A. Beck, G. Emery, l’ansia e le fobie, 1988

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