È una frase piuttosto frequente che sentiamo pronunciare da uomini timidi e da donne timide. Una frase sempre accompagnata da una congiunzione che annuncia postumi negativi: “Sono sempre stato troppo buono e…”, “Sono troppo buona e…”.
Le conseguenze sono, più o meno, sempre le stesse: “Si approfittano di me”, “mi trattano male”, “m’insultano”, “ma non sono mai disponibili quando ho bisogno di loro”.
In cosa consiste questa tanta bontà?
Mettere la lealtà verso gli altri davanti a tutto, porre gli amici e le amiche prima di tutto, considerare i sentimenti altrui prima di tutto, essere sempre e comunque pronti ad aiutare gli altri, sorvolare sulle “cattiverie” altrui, accontentare sempre gli altri, farsi in quattro per gli altri.
Altra peculiarità di questa “bontà” è il mettere in secondo piano sé stessi, i propri bisogni, le proprie necessità, i propri diritti.
In realtà, le persone timide che si dichiarano piene di bontà, nei termini poc’anzi indicati, attuano semplicemente comportamenti fortemente svalutanti della propria persona. La loro non è bontà, ma cedere, a buon mercato, la propria dignità.
Nella cultura assertiva la bontà non può prescindere dall’amore e dal rispetto verso sé stessi.
L’importanza che riveste la propria persona è, e deve essere, prioritaria.
Potrei rinunciare a tale preminenza, persino morire, se tale sacrificio corrispondesse a valori di somma importanza come salvare la vita fisica di una persona.
La rinuncia ai propri diritti e bisogni, in vantaggio di quelli altrui, non corrisponde alla bontà, ma a un atto di sottomissione, di sudditanza, di subalternità del valore della propria vita.
Perché si ha questo comportamento che i timidi descrivono come essere buoni?
La timidezza è segnata dai problemi di base dell’accettazione e della competenza.
La loro origine afferisce, nel livello più profondo dell’inconscio, alle definizioni del sé, insite nell’insieme di credenze di base (“sono un incapace”, “sono inferiore agli altri”, “sono stupido/a”, “sono sbagliato/a”, “sono un fallimento”).
Le questioni legate all’accettazione alla competenza, prendono vita e si radicalizzano nelle metacognizioni.
Parlo di quegli stili del ragionamento che hanno carattere di pensieri doverizzanti (“devo assolutamente essere gradito agli altri, altrimenti sono un fallito”, “devo ricevere approvazione degli altri, altrimenti non valgo niente”, “bisogna compiacere agli amici, altrimenti sono un ingrato”); condizionali (“se non mostro benevolenza, non merito attenzioni”, “se dico di no, non sono un’amica”); di assunzioni (“l’amicizia vale più della mia vita”, “i sentimenti degli altri hanno priorità sui miei bisogni”, “aiutare gli altri è un obbligo prioritario”, “i miei bisogni si fermano davanti a quelli degli altri”).
Ne possiamo anche rintracciare in quelli che Ellis chiama “miti” e che sono principi distorsivi e disfunzionali riguardanti l’etica delle relazioni interpersonali (il mito del vero amico, il mito dell’obbligo, il mito della modestia).
Con un tale quadro, si comprenderà che l’individuo timido è preso nella morsa di pensieri negativi che gli trasmettono, anche attraverso gli impulsi emotivi e ansiogeni, la necessità e l’obbligo dell’essere accettati socialmente a ogni costo.
Le metacognizioni cui mi riferisco sono tipiche del comportamento passivo: “Si potrebbe riassumere la modalità passiva definendola come caratterizzata dalla rinuncia a sé stessi. Il soggetto passivo antepone i bisogni altrui a quelli propri, pensa soprattutto ad accontentare gli altri piuttosto che sé stesso, anche se ciò gli genera sofferenza e insoddisfazione… Egli è interessato non al mondo esterno, ma di sé di fronte al mondo esterno, così come si trova a preoccuparsi non di sé, ma di sé di fronte al problema…È in questa modalità che si presentano gli effetti peggiori, l’essere sostanzialmente accondiscendenti e, quindi, subire la volontà altrui e reprimere la propria, subire l’aggressività degli altri come il dileggio, l’ironia, il bullismo, il diventare soggetti che ricevono consigli da altri che si pongono con un ruolo di superiorità” [ Luigi Zizzari, Il libro dell’assertività, 2023 ].
Il buonismo della persona timida, che abbiamo visto essere, invece, comportamento passivo e negativo ha anche conseguenze sulle valutazioni degli altri nei suoi confronti.
La remissività, la disponibilità che annichilisce necessità e obiettivi propri, trasmette contenuti di relazione, intrinseci alla comunicazione derivante dal comportamento passivo, che sono traducibili come scarso valore in termini di competenza e abilità.
In queste situazioni la timidezza finisce col diventare sinonimo di bassa credibilità e di scarso valore sociale. In pratica il buonismo del soggetto timido ottiene il risultato opposto a quello desiderato: la svalutazione del sé come soggetto sociale.