Le persone timide percepiscono chiaramente la propria diversità. Ciò risulta evidente, ai loro occhi, per la non conformità dei propri comportamenti rispetto a quelli comunemente adottati dagli altri, per gli obiettivi che non riescono a raggiungere ma che altri soddisfano normalmente, per le difficoltà che provano nel relazionarsi agli altri che questi non hanno, per la diversa qualità della vita tra essi e gli altri.
I timidi vedono gli altri riuscire, laddove essi si bloccano, falliscono o pongono in essere strategie di fuga o evitamento. Confrontano continuamente i risultati propri con quelli altrui.
Nel misurare queste differenze, nel constatare questi diversi livelli o frequenza di successi, queste diverse abilità nel districarsi nelle situazioni sociali, gli ansiosi sociali si convincono che in loro c’è qualcosa che non va.
Quel qualcosa che non va tende a divenire un valore assoluto, e dunque, il riferimento non è più la singola specifica situazione, il particolare contesto, quel preciso aspetto di sé, quel determinato comportamento, ma la propria persona nella sua globalità, interezza.
Maggiore è il gap percepito, più forte è la tendenza a ritenersi diversi per “costituzione”, per natura, per indole innata.
Nel momento in cui la differenza tra sé e gli altri è concepita come dato costitutivo globale della persona, l’individuo timido, tende a determinare una concezione di sé che può sfociare in due direzioni principali, le quali agiscono come fattore di rinforzo delle credenze disfunzionali, di perpetuazione ulteriore dei pensieri automatici negativi, di alimentazione del circolo vizioso della timidezza e delle altre forme di ansia sociale.
Una direzione è quella di rinchiudersi in una rigida idea di indipendenza o di autosufficienza. In questo caso il soggetto è portato a isolarsi dai contesti sociali per affermare una presunta “purezza” del proprio carattere e ponendosi nel ruolo di colui che è chiamato a difendere tale prerogativa.
Queste persone hanno assunzioni e regole implicite che li portano a considerare forme di difesa della propria libertà e autonomia, anche comportamenti che, nella realtà, sono fortemente disadattivi o non funzionali agli scopi.
L’altra direzione è all’insegna dell’ipercriticità. La persona timida, in questa modalità, percepisce le differenze come gap, come errore, come disabilità, come distorsione, come malformazione. Concepisce la propria persona, (nella sua globalità) come sbagliata. Qui l’idea dell’imperfezione non è legata alla specie umana e alla sua fallacità, è un’idea di difetto di “costruzione”.
Il soggetto timido che precipita in questa logica considera sé stesso colpevole e vive emotivamente questo senso di colpevolezza. È portato sovente a considerare questa condizione come a uno stato di condanna perenne.
Quando il senso di colpa non è più vissuto solo verso sé stessi, quando la difficoltà al cambiamento si trasforma in una via senza uscita, quando non si avvertono più in sé stessi prerogative positive, una tale condizione può facilmente sfociare nella depressione, nella quale il sentimento della perdita assume caratteri tragici.
Nella timidezza il sentirsi sbagliati, apre la strada alla formazione di assunzioni e regole implicite che vertono sulla necessità della perfezione, sulla doverosità di non commettere errori, ma anche al bisogno di un mentore quando l’idea della propria imperfezione è tale da condurre al convincimento di essere incapaci di svolgere un ruolo o un compito autonomamente.
Il percepirsi sbagliati produce anche una marcata paura del giudizio altrui, molto più che in altre tipologie di timidezza, infatti, poiché ci si considera carenti, la determinazione del valore della propria persona è delegato alle valutazioni degli altri. Questa tendenza determina anche comportamenti caratterizzati da modalità passive.
Ritenere di essere sbagliati può coincidere con una credenza disfunzionale di base, ma può anche essere una diretta derivazione di essa.
Comunque sia, va sempre tenuto presente che si tratta di interpretazioni emotive che riguardano la definizione del sé. Quindi, quando parliamo di interpretazioni emotive della realtà, siamo sempre di fronte a modelli descrittivi che sfuggono all’oggettività del mondo reale – il quale, invece, viene rappresentato attraverso gli effetti che questo ha indotto nella propria interiorità: il risultato dell’interazione con lo stimolo ricevuto.