Spesso, quando una persona timida è in presenza di altre persone, o dinanzi una platea, il solo semplice atto del parlare diventa un problema. Sente montare l’ansia dentro di sé, le mani sudano, o cominciano a tremare, la paura ha il volto dell’inquietudine. 

Luigi Zizzari – pubblico caino

Gli altri non sono percepiti come ascoltatori, bensì, come giudici intransigenti che non perdonano. 

Il timido radiografa sé stesso, alla ricerca di sintomi e di prove di una propria defaillance che sta per avvenire. 

Se gli altri sono giudici, egli, vittima della morsa della timidezza, è il colpevole che sta per essere condannato. 

Colpevole di cosa? Di ciò che egli stesso pensa di essere.
Le persone timide sono vittime e prigioniere dell’idea che hanno di sé stesse. 


Come il ladro, che si sente in sé la colpa, vede poliziotti a ogni angolo, queste anime angosciate vedono riflettersi negli sguardi degli altri e, infine, nella loro mente, l’inadeguatezza che sentono di avere. 

Si percepiscono trasparenti agli occhi degli altri, quasi come se tutti gli uomini e le donne montassero lenti ai raggi x. 

La mente dei soggetti timidi, in queste situazioni, è pervasa da pensieri che non annunciano nulla di buono, che sono portatori di cattivi presagi. 

Pensieri che presto diventano invadenti: sono i pensieri automatici negativi, rappresentanti simbolici o metaforici di credenze ben più profonde, che guardano, ora alle cattive qualità di sé, ora dediti alla predizione d’infelici eventi e tragici effetti.

Se l’individuo timido è in gruppo, tende a dirigere l’attenzione sulle proprie presunte inabilità e le reazioni divertite o infastidite degli altri. 

“Che cosa dico, ora?”; “Dovrei dire qualcosa, ma non mi viene in mente niente”; “ecco qua, continuo a fare la scena del muto”; “dovrei dire qualcosa di serio, d’importante”; “dovrei farmi venire qualcosa di decente da dire”; “farò, come al solito, la figura del beota”; “oramai pensano che sono una persona vuota”; “se apro bocca, dirò solo scemenze, penseranno che sono idiota”; “meglio stare zitti, quando non si ha nulla di buono da dire”; “sono tutti più bravi di me, cosa potrei dire io, che non servo a niente?”; “Loro ci riescono tranquillamente, ed io, invece, riesco solo a fare il muto”; “magari se mi esce da dire qualcosa, mi faranno anche la battuta: ehi, il muto ha parlato”; “se continuo a starmene zitto/a, cominceranno a dirmi: parla più forte, non abbiamo sentito”; “se continuo così, li perderò tutti”. 

La paura di non essere capaci, di suscitare l’ilarità di amici e conoscenti, di essere considerati meno di niente, si lega al timore più profondo della perdita di un’appartenenza ristretta, alla solitudine che avanza, a un futuro senza affetti. 

La timidezza che si manifesta nell’individuo che deve parlare dinanzi una platea, induce il soggetto è indirizzare l’attenzione sulla necessità della perfezione e del nascondere ogni minimo segno d’ansia.

Il sudore inumidisce gli abiti, e ciò si vede; il rossore al volto non è soltanto ben visibile, è considerato un segno di debolezza, e il debole ha poco valore; incespicare sulle parole è segno d’incompetenza. La platea e là, pronta a crocifiggere per ogni minimo errore. Monta la paura della paura. 

“Se arrossisco, penseranno che non valgo niente”; “che figura di merda, se mi faccio rosso/a”; “dovrò essere perfetto/a, altrimenti sarà un fallimento”; “Si accorgeranno che sono emozionato/a, e susciterò solo la loro pietà”; “se faccio solo un minimo errore, è finita”; “finisce che m’imballerò, e farò una figuraccia”; “se non andrà tutto come si deve, penseranno che non valgo niente”. 

Nella mente del soggetto timido, una platea scontenta determina il fallimento della propria vita, del sé nella sua globalità. 

La paura di fallire, di non riuscire, dell’imperfezione, di subire il giudizio negativo della platea, si collega al timore della perdita di un’appartenenza ben più ampia di quella del gruppo, è verso la società nel suo insieme; la solitudine non lo investe nella sua semplice individualità, lo pervade come soggetto sociale: è la solitudine della discriminazione, dell’emarginazione, dell’essere invisibile. 

Può sembrare persino paradossale, che credenze profonde riguardanti le proprie capacità o abilità, possano produrre tanti effetti negativi nella vita pratica di una persona ansiosa: eppure sono solo cognizioni. 

Di fronte alle previsioni catastrofiche del parlare in pubblico, avvertendo la paura e l’inquietudine che diventa viscerale, l’invadenza dell’ansia che rende il tutto visibile agli altri, le persone timide tendono a due approcci di base, il fronteggiamento con comportamenti di protezione (stringere oggetti tra le mani, giocherellare con un oggetto, toccarsi in abbondanza, vestirsi per nascondere il più possibile le proprie tracce d’ansia), e l’evitamento

Mentre nel primo caso, si crea la possibilità che con la perseveranza e col tempo, si impara a gestire ansia ed emozioni, nel secondo caso non si lascia spazio al cambiamento, al contrario, si rinforzano quelle credenze disfunzionali che sono alla base della paura del parlare in pubblico.

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