La timidezza è spesso segnata da un sentimento di inferiorità verso gli altri.

Quasi sempre questo sentimento scaturisce dal confronto tra sé stessi e gli altri, tra le abilità che si ritiene di non possedere e quelle efficaci degli altri, tra le presunte incapacità proprie e le capacità altrui, tra gli insuccessi relazionali propri e i successi altrui nell’interazione sociale, tra le personali scene mute e le loquacità degli altri, tra l’assenza di rapporti amicali o di coppia nella propria vita e l’abbondanza di amicizie e amori nella vita degli altri.

Alfred Kubin – adorazione

Il soggetto timido si scontra con la discrepanza tra l’idea desiderata del sé e il sé stesso nella vita reale. Confronta il sé ideale, ciò che aspira o ritiene di dover essere, con gli effetti della sua interazione sociale.

Come si suol dire, l’erba del vicino è sempre più verde.

Nel momento in cui le persone timide si percepiscono difformi rispetto all’immagine del sé ideale, l’altro diventa un punto di riferimento e confronto. Misurano le proprie qualità in base alle differenze che riscontrano nel continuo confrontare sé stessi agli altri.

Giacché il bisogno di appartenenza riveste un ruolo centrale nella vita di una persona, gli individui timidi osservano le discrepanze sia tra il sé ideale e quello reale, sia tra il sé reale e gli altri, soprattutto inerenti la funzionalità, in chiave relazionale, dei comportamenti propri e/o altrui.

“Mi sento sempre la seconda scelta degli altri”; “gli altri si divertono e io mi sento solo/a e inferiore a tutti”; “mi sento un gradino inferiore agli altri”; “gli altri sono normali e io no”; “mi sento inferiore rispetto ai miei amici”; “mi sento sempre inferiore agli altri, soprattutto a quelli del mio stesso sesso”; “ho la sensazione di non essere mai alla loro altezza”; “non mi sento in grado di essere come i miei amici”; “loro riescono in tutto e io no”; “mi sento inferiore a tutti, di non essere nessuno”; “mi sento inferiore nel parlare, nel camminare, nel portare la macchina…”; “Gli altri si divertono e io non ci riesco”; “lei/lui è un gradino più in alto di me”.

Da una parte il comportamento evitante, che impedisce la maturazione delle esperienze e, dall’altra parte, l’inibizione ansiogena, che gioca un potente ruolo disturbante nell’interazione sociale delle persone timide, contribuiscono a inanellare insuccessi relazionali e a rafforzare i convincimenti su un se inadeguato. 

Come ho più volte spiegato, la timidezza si forma per la presenza di convincimenti inconsci profondi (credenze di base) inerenti definizioni sintetiche e generalizzanti che descrivono il sé come inadeguato in una o più funzioni del vivere umano.

Partendo da assunti che si riferiscono a tali definizioni, le esperienze sociali inefficaci finiscono col diventare fattori di rinforzo e conferma proprio delle credenze di base.

L’insuccesso nell’interazione sociale diventa, dunque, elemento di valutazione, di giudizio che gli individui timidi operano verso sé stessi.


Poiché dal confronto tra le proprie (vere o presunte) inabilità o incapacità con i successi altrui evidenzia una condizione di appartenenza precaria e di inefficacia personale dell’interazione sociale, la persona timida comincia a percepire sé stessa come di grado inferiore agli altri.

Talvolta, l’idea d’inferiorità corrisponde proprio a una credenza di base in cui la definizione del sé si caratterizza per essere ad alta generalizzazione che coinvolge la valutazione della persona in tutta la sua interezza e globalità.

Come ho più volte scritto, il “sentirsi” qualcosa corrisponde a un’idea del sé, pertanto, a un pensiero, a un convincimento.  

Spesso, in luogo del sentirsi, vi è “la paura di”.

Tuttavia, il sentirsi inferiore si presenta, in genere, nella molteplice funzione di essere un convincimento, un giudizio, un’emozione ma anche come desiderio di non essere ciò.



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