Per dare l’idea di come possa formarsi un modo di pensare disfunzionale, ricorrerò al caso di un ragazzo cui era stata diagnosticata la fobia sociale. Non aveva il coraggio di avvicinarsi alle persone per interloquire con loro.
R: insomma, non ho il coraggio di avvicinarmi alle persone e parlare con loro, figuriamoci poi con le ragazze.
D: cosa ti viene in mente in quei momenti?
R: beh, che vado li a rompergli le scatole. Insomma, è se gli do fastidio?
D: è come fai a sapere che gli dai fastidio se non ti avvicini e glielo chiedi?
R: si, ma se lo faccio e gli do fastidio, mi sarò comportato da cafone e avrò fatto proprio quello che volevo evitare.
D: e se non dai loro fastidio? Se a loro sta bene la tua presenza?
R: si ma c’è sempre la possibilità che gli do fastidio.
D: È possibile, ma può essere vero anche il contrario. Non pensi che così, alla fine, finisci che non comunichi mai con nessuno? Che resti sempre da solo? È utile alla tua vita, questo evitare?
R: (con tono ed espressione visiva infastidita) Lei vuole reprimere la libertà di essere me stesso e di pensare con la mia testa. Non rinuncio alla mia dignità.
Qual’ è la dinamica di questo processo cognitivo?
Nella elaborazione previsionale, egli conferiva un livello di probabilità elevatissima alla possibilità di arrecare disturbo, per cui prediligeva considerare la sola ipotesi negativa.
Di questa tendenza caratteristica dell’ansioso sociale, che prende in considerazione solo ipotesi negative, e scarta aprioristicamente quelle positive o neutre, ne ho parlato ampiamente nel mio libro “addio timidezza”, e ne ho fatto più volte accenno in altri miei articoli.
Dunque, l’idea di un insuccesso del tentativo di instaurare una relazione, diventa preminente.
Questi pensieri negativi trovano sbocco nell’espressione emotiva della paura.
Non è neanche necessario che subentrino sintomi d’ansia, il connubio pensiero negativo-emozione è, di per sé, già sufficiente a determinare una scelta comportamentale di evitamento.
Ma come giustificare, innanzitutto a sé stessi, la rinuncia?
Soprattutto quando questa privazione non è l’espressione di un comportamento episodico, ma abituale, sistematico, automatico?
Il sistema cognitivo ha bisogno di uno schema logico su cui fondare e poggiare la strategia di fronteggiamento abituale e sistematica che, nel nostro esempio, è l’evitamento.
Ha anche la necessità che questo schema del ragionamento logico, sia conforme e confermativo delle credenze sottostanti, che sono il punto di partenza del processo che si conclude col comportamento evitante.
Ricorrere alla concezione dell’evitamento, non come strategia di fronteggiamento, ma come espressione di una identità personale e culturale, significa conferire valore al contenuto della scelta comportamentale.
In questo modo l’idea dell’evitamento acquisisce dignità concettuale, pertanto, nel livello cosciente, la si considera una scelta di civiltà, espressione della propria personalità e del libero pensiero.
Ciò è possibile per il fatto che il soggetto non controlla i propri moti inconsci, anzi, non li conosce.
Questa costruzione teorica è, dunque, figlia della necessità del sistema cognitivo, nel suo livello inconscio, di produrre un sistema logico a difesa dei propri schemi cognitivi esistenti, anche e soprattutto di quelli disfunzionali, visto che quelli funzionali, sono tali, perché riescono a essere sottoposti alle invalidazioni e ne recepiscono le istanze evolutive.
A livello cosciente, invece, questi modi di pensare disfunzionali, appaiono come espressione delle proprie qualità intellettuali.