Nell’immaginario collettivo, la timidezza è sinonimo di ritrosia. Benché tale peculiarità non sia visibile chiaramente in tutte le forme della timidezza, la ritrosia è un chiaro indicatore dell’emozione principale che caratterizza questo disagio sociale, la paura. È però anche l’espressione dell’esistenza di stati d’inibizione.

Salvator Dalì – La nascita di liquide paure

Relazionandola alle ansie sociali, possiamo definire la ritrosia come una risposta comportamentale indotta dalla percezione di una propria forte vulnerabilità che scaturisce dalla valutazione e interpretazione cognitiva di un evento o situazione.

Nel momento in cui, una persona timida, si percepisce vulnerabile rispetto a un contesto situazionale, un’esperienza o una condizione, si fa strada l’emozione della paura che predispone verso una strategia di fuga, la quale può rivelarsi in comportamenti evitanti, elusivi o di vera e propria defezione.

Il soggetto timido si sente nudo, privo di difese, trasparente agli occhi e alla valutazione altrui. Il suo timore più grande è che gli altri si accorgano delle inadeguatezze che è, consciamente o inconsciamente, convinto di avere.

Con la ritrosia gli individui timidi tendono a tenersi fuori dal rischio di ritrovarsi al centro dell’attenzione altrui, di dover assumere ruoli, o esperire performance, che li espongono al rischio di valutazione da parte degli altri.

Nelle persone timide, l’interpretazione degli eventi che sfociano nella ritrosia, fanno riferimento a schemi cognitivi sostanzialmente indirizzati in due direzioni principali: il sé definito come inabile nelle relazioni sociali, incapace a far fronte a una o più situazioni in modo efficace; gli altri, o il mondo come consesso sociale, definito come cinicamente indisponibile, selettivo, escludente e, cosa più importante, giudicante in senso negativo.

L’individuo timido che si rifugia in una “riservatezza evitante” tende a temere che possa farsi strada, negli altri, l’idea di una sua ipotetica debolezza e di essere sottoposto a giudizio.

In questo contesto, l’idea stessa del giudizio emesso dagli altri non è considerato come un evento dagli esiti variabili, è percepito e vissuto come atto di condanna o di valutazione comunque negativa.

Se prendiamo in esame un ansioso sociale che ha credenze impostate su un’idea d’inadeguatezza, il timore principale diventa quello dell’insuccesso. La particolarità è che ogni singolo fiasco è considerato e vissuto come dimostrazione di un sé fallito; con un tale stile interpretativo, viene a mancare la contestualizzazione degli eventi, ciò che ha valore relativo è trasformata in regola generale e assoluta, che ingloba l’individuo nella sua interezza. 

In questi casi la ritrosia nasce dalla paura di cadere in errore, di non riuscire a far fronte alla situazione, dal timore di sbagliare o di essere inopportuno e arrecare disturbo, di subire un rifiuto, oppure dal timore che la paura o gli stati ansiosi possano condurre a una qualsiasi forma d’insuccesso. 

La ritrosia può manifestarsi anche come comportamento automatico, ma ciò implica che i fenomeni precedentemente illustrati, siano già stati abbondantemente reiterati.

Generalmente, le emozioni producono altre emozioni e altri pensieri. Va quindi, considerato che tutti i fenomeni caratterizzati da ritrosia possono registrare la manifestazione di emozioni primarie ed emozioni secondarie o, se preferite, derivate.

Questo principio è sicuramente da collegare alla paura dell’insuccesso e al timore del giudizio altrui, che sono strettamente correlati: a seconda dei casi, l’una deriva dall’altra.

Condividi questo articolo: