Il coping, cioè, la strategia cognitiva e comportamentale utilizzata da una persona per far fronte ai problemi derivanti dal relazionamento sociale, cui fanno maggior ricorso le persone timide e gli afflitti dalle altre forme di ansie sociali, è il comportamento evitante. 

Aba Novak Vilmos – composizione eremiti

La mancanza o carenza di una vita sociale, ne è una delle conseguenze più invalidanti per la gestione delle relazioni interpersonali.

In realtà, per definizione, il vero asociale è una persona totalmente insensibile ai problemi e alla vita degli altri. Al contrario il timido non fa vita sociale perché è bloccato dai suoi problemi a relazionarsi con gli altri.

Nella timidezza, la non socialità non ha una valenza culturale, ideologica o classista; è un comportamento sociale, generato da risposte emotive e ansiogene, a situazioni che inducono valutazioni cognitive, elaborate sulla base di pensieri previsionali e credenze disfunzionali negative.

Il soggetto timido che viene a trovarsi imbottigliato in questa condizione che è, al tempo stesso, sociale, cognitiva ed emotiva, è un individuo profondamente demotivato.

Egli vive il ripetersi degli insuccessi, nei suoi tentativi di relazionarsi agli altri con efficacia, o come fallimento radicale della propria persona, oppure come risultato del cinismo o indisponibilità che esprime la società umana.

Nel primo caso, l’idea del fallimento di sé stessi come persona, nella propria interezza, è a un tempo, espressione del sistema di credenze negative riguardanti il sé, e conferma, oltre che rinforzo, di quegli stessi schemi cognitivi disfunzionali.

Nel secondo caso, l’idea del fallimento relazionale può essere il risultato, o di credenze negative riguardanti gli altri e il mondo sociale, oppure espressione delle strutture protettive dell’apparato cognitivo che, in tal caso, si attiverebbero per bloccare il processo d’invalidazione di credenze disfunzionali.

Comunque sia, gli insuccessi sono vissuti come emarginazione sociale. 

La persona timida si sente rifiutata dagli altri e, come abbiamo visto, in alcuni casi arroga a sé , le cause e/o le colpe dell’indisponibilità altrui; in altri casi attribuisce l’esclusione al gruppo di riferimento o alla società.

Il permanere della difficoltà di relazionarsi agli altri, di stabilire stabili e validi rapporti interpersonali, determina un profondo senso di frustrazione. 

In un tale quadro, gli individui timidi, così come tutti coloro che sono assoggettati a forme di ansia sociale, sperimentano sensazioni e sentimenti che infondono, in molti casi, pensieri negativi ispirati al senso d’inutilità e vacuità di ulteriori tentativi di relazionamento; in altri casi suscitano pensieri indirizzati al senso d’immutabilità del presente (come del passato), fino a considerare il futuro come replica illimitata del presente stesso.

Mossi dalle credenze disfunzionali, dei pensieri automatici negativi che si sviluppano nella loro mente, dalle idee d’inutilità e immutabilità, i soggetti timidi finiscono con l’auto isolarsi.

L’auto isolamento si esprime in molte forme: con l’evitamento, con l’estraniazione, con l’elusione, con la fuga.
Tutte queste forme si esplicano con comportamenti di fronteggiamento del proprio status emotivo e ansiogeno. 

Il problema è che questi coping si rivelano sempre e sistematicamente non funzionali alla vita privata e sociale di chi le attua. In breve, nel caso del tema discusso, finiscono con l’aggravare la condizione di difficoltà nel relazionamento sociale. Infatti, tali strategie di affrontamento si manifestano con comportamenti che risultano essere trasmissivi di messaggi che, all’esterno, sono interpretati come indisponibilità a relazionarsi. Interpretazioni che possono riferirsi, ad esempio, a comportamenti del tipo:

  • Il rifiuto a partecipare agli inviti che pervengono;
  • La non partecipazione attiva in situazioni di confronto, discussione o conversazione;
  • Il mostrarsi distratti nelle attività di gruppo, o verso gli amici più stretti;
  • Essere presente a sprazzi nella vita del gruppo di appartenenza, sia nell’ambiente di lavoro, sia in quello amicale;
  • Apparire assenti in termini posturali e di mimiche facciali;
  • Evitare sistematicamente l’incrocio degli sguardi;
  • Assumere, con continuità, rigidi comportamenti verbali o fisici;
  • Condurre una vita estremamente ritirata, come il non uscire mai, chiudersi un’intera giornata in casa;
  • Evitare situazioni sociali che hanno particolare valore per i membri del gruppo di appartenenza, sia in ambito lavorativo che in un ambito amicale.

In questi esempi e altri casi entrano in gioco diversi fattori. Il linguaggio non verbale è uno di questi.

Oltre al giudizio di asocialità proveniente dall’esterno, vi è anche quello proveniente dall’introspezione operata dallo stesso individuo timido. 

In questo caso, egli, individua nella sua persona l’origine e la colpa. Considerandosi, quindi, artefice della propria condizione, finisce con l’assumere una nuova definizione del sé: sono asociale.

Quando l’ansioso sociale stesso si descrive come asociale, la definizione di asocialità assume un significato che va ben oltre la sua natura sociale, essa acquisisce carattere di intrinsecità della propria essenza umana, della peculiare costituzione di nascita.

Il termine “asocialità” smette di esprimere un comportamento sociale, per essere espressione qualitativa della natura umana del soggetto.

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