Tutti sappiamo che l’essere umano è un animale gregario.
L’essere parte di un gruppo, di una comunità, di un nucleo ristretto come la famiglia, è vissuto e sentito, come bisogno primario, come necessità esistenziale.
Non a caso l’appartenenza sociale è un fattore fondamentale dell’equilibrio psichico di ogni individuo. Sin dagli albori l’aggregazione ha costituito la forma economica del vivere, favorendo la ripartizione dei compiti.

Jean Michel Basquiat – autoritratto

Ogni individuo è impegnato costantemente, nella propria vita, a essere accettato, benvoluto, rispettato. In funzione di questi obiettivi egli prova a mostrare il meglio di sé, cercando sempre di porre in evidenza le personali qualità positive.

La società umana si è tanto articolata, divenendo sempre più complessa, da sottoporre il livello di socialità a un insieme di modelli culturali e comportamentali che presuppongono il possesso di abilità sociali e una sempre maggiore capacità di adattamento.
L’adattabilità sociale dell’uomo è paragonabile, anzi, direi parallela, alla capacità di adattamento delle forme di vita all’ambiente in cui vivono. 
Nel mondo animale e vegetale il mancato adattamento ambientale costituisce il fattore di estinzione o di morte; nei sistemi di aggregazione sociale dell’uomo, ma anche in altre specie animali, fa la differenza tra l’essere che si riproduce e produce e quello che resta ai margini della vita affettiva e materiale, e privato di quella sessuale e riproduttiva.
Le ansie sociali si caratterizzano per l’essere causali della difficoltà di adattamento sociale.
La solitudine, la subalternità passiva negli ambienti lavorativi e altri aspetti della marginalità sociale sono le conseguenze di tali difficoltà.
In molte delle forme delle ansie sociali i problemi di inclusione, i ripetuti insuccessi nei tentativi di inserimento, inducono queste persone a uno stile di vita oltremodo ritirato.
In questi casi non si può parlare propriamente di asocialità, in quanto questa presuppone una decisa scelta incondizionata, una insensibilità e disinteresse verso il mondo degli altri. Al contrario, le persone timide aspirano profondamente ad avere una vita sociale soddisfacente.
L’ansioso sociale guarda gli altri divincolarsi e operare agevolmente nell’insieme dei modelli comportamentali ricavando una efficace vita relazionale; talvolta, li trasforma in riferimenti idealizzati; confronta queste abilità e questi successi con la propria condizione; misura sé stesso in relazione ai successi altrui e soffre per la discrepanza tra il sé ideale e il sé reale.
Non riuscendo a inserirsi come vorrebbe nei contesti sociali cui mira, la persona timida avverte la propria, come una appartenenza precaria, in bilico tra la solitudine assoluta e la marginalità. Spesso si sente del tutto fuori. 
Questa sofferenza latente, ma che spesso ritroviamo espressa nelle opere d’arte, si trasforma in una sorta di prigione mentale. 
L’ansioso sociale valuta i propri insuccessi come manifestazione esplicita di una propria incapacità strutturale, persino innata.
Un’idea di inadeguatezza che pervade il giudizio di sé e, spesso, estesa alla persona nella propria interezza.
In realtà, le cause sono da ricercare nella formazione di cognizioni di base che descrivono, il sé, in maniera emotiva e non oggettiva. 
Ciò basta perché si sviluppino interi processi cognitivi nel segno della negatività del sé, si formino credenze derivate e  si attivino metacognizioni che irrigidiscono ancora di più la duttilità e le capacità interpretative e operative del ragionamento. Il risultato è un condizionamento pervasivo che coinvolge emozioni e comportamenti.
La mancata soddisfazione del bisogno di appartenenza spinge, ancor più, gli ansiosi sociali a un ulteriore declassamento e sottovalutazione delle proprie prerogative e capacità, favorendo il perpetuarsi dell’insorgenza dell’inibizione ansiogena nelle interazioni sociali o l’attuazione di comportamenti evitanti. 
Il crollo dell’autostima ne è una conseguenza diretta.
Nell’osservare la propria inefficacia nell’interazione interpersonale, la personale condizione di marginalità sociale e di solitudine, il soggetto timido attribuisce a sé stesso il ruolo causale negli insuccessi, e così, si fa sempre più strada la conferma dell’idea del fallimento come
prerogativa globale della propria persona.
 
 
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