Come avrete notato, da alcuni mesi, sto trattando di aspetti specifici e particolari, tipici delle forme di ansia sociale e dei disturbi dell’umore.
Tutti questi aspetti, come quello di cui tratterò oggi, sono operativi nei comportamenti e sono impliciti in gran parte dei pensieri. In comune hanno il fatto di non raggiungere uno stadio di consapevolezza e nemmeno di coscienza, in parole povere, i soggetti ansiosi, e quindi anche le persone timide, non hanno la benché minima idea che nella loro mente vi siano di queste dinamiche mentali, né si rendono conto che i loro comportamenti obbediscono alle leggi di tali dinamiche.

Giorgio Celiberti – uccello nella gabbia

Le persone afflitte dall’ansia sociale non fanno altro che tentare di proteggersi da quelle che considerano le conseguenze nefaste di ciò che sono convinti di essere, o delle carenze che ritengono di avere.

Le credenze disfunzionali, e cioè, quelle che ho più volte definito come interpretazioni emotive della realtà, condizionano a tal punto la vita pratica dei soggetti timidi e degli ansiosi sociali, da rendere la loro esistenza, una sorta d’incubo romanzato. 

Queste inducono a percepire gli eventi, in qualità di soggetto sociale, come una selva piena d’insidie: pericoli, rischi, considerati o vissuti emotivamente come futuro prossimo e remoto certo e inesorabile.

Le attività cognitive previsionali delle persone ansiose contemplano sempre prospettive negative, e queste conducono sistematicamente alle idee di catastrofe, fallimento, annichilimento sociale. 

L’insuccesso è considerato come elemento di definizione del sé, come costituente della propria persona, come agente delineante abilità, capacità e potenzialità di sé stessi, esso è visto come fattore invasivo, permeante, globalizzante di sé.

Di fronte a questi rischi, la persona timida avverte il bisogno prorompente di porre sotto stretto controllo le proprie emozioni, i pensieri, le scelte, i comportamenti. 

Il bisogno di controllo nasce dall’esigenza di avere uno strumento di gestione e soluzione delle problematiche. 

Una delle cause principali di quest’atteggiamento è di natura culturale. Nella società umana e, in modo accentuato, in quella contemporanea, fortemente condizionata da messaggi proponenti l’idea del gaudio a portata di mano, prevale l’idea che evitare la sofferenza renda la felicità più facilmente raggiungibile e che, dunque, sia decisamente preferibile porre in atto il controllo sulle esperienze interiori. Da qui si è sviluppato un pensare collettivo che è fonte di apprendimento e incoraggiamento verso il comportamento e il pensiero evitanti: la soluzione del problema s’identifica con l’intenzionale esercizio del controllo sia sul comportamento che sull’ambiente sociale.

Ora, mentre nelle persone non soggette a forme d’ansia, una tale azione di controllo può anche risultare funzionale per molti obiettivi, per un ansioso sociale, si traduce in un aumento abnorme della sofferenza psichica. Questo accade perché, in essi, l’evitamento è sistemico, abituale e automatico: è IL modo di vivere. Non solo. 

L’insuccesso derivante dal mancato raggiungimento degli obiettivi, posti alla base dell’azione di controllo, induce la persona ansiosa, a considerare le proprie esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni fisiologiche) come qualcosa di patologico, innescando – così – un circolo vizioso che lo conduce alla conferma e al rinforzo delle proprie credenze disfunzionali, del percepirsi e convincersi di essere sbagliata, deficitaria.

Il bisogno di controllo, nella sua attuazione, non si configura più come semplice evitamento della sofferenza, ma come sovrastruttura della stessa sofferenza che, in questo modo, si auto alimenta.

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