Quando Carl Rogers teorizzò la terapia centrata sul cliente, si pose anche il problema della motivazione per far fronte alla resistenza al cambiamento, e ideò il dialogo motivazionale. Da un po’ di tempo, la terapia cognitivo comportamentale sta implementando, nelle proprie pratiche, il dialogo motivazionale.

Pablo Picasso – lo spavento

Impegno e motivazione sono strettamente collegati. Senza motivazione non c’è l’impegno.

Il problema, a mio parere, sorge da un conflitto tra ragione razionale e ragione emotiva, cioè tra la nostra razionalità cosciente e gli impulsi emotivi derivanti da quella parte del sistema cognitivo che è disfunzionale, e attiva i suoi strumenti di difesa o di aggiornamento, i cosiddetti stili di crescita della conoscenza.

In condizioni normali, gli stili di crescita della conoscenza, fungono come strumento di adeguamento delle cognizioni per renderle più aderenti al mondo reale; e ciò è possibile quando le credenze sono elastiche. 

Infatti, in tali casi, il sistema cognitivo non viene a trovarsi mai con un vero e proprio vuoto interpretativo oppure, se capita, è per un tempo ragionevolmente breve, tale da non compromettere le possibilità di risposta agli stimoli. 

Purtroppo, negli ansiosi sociali, determinate credenze, quelle disfunzionali, quelle che si sono formate come interpretazioni emotive del reale, a scapito dell’interpretazione oggettiva, sono caratterizzate da rigidità e dalla difficile capacità di adeguamento.

All’insieme cognitivo non interessa avere ragione, interessa lo status quo, difendere quei modelli che le assicurano un’omeostasi del proprio sistema, in modo da non trovarsi priva di modelli interpretativi nei momenti in cui ne abbisogna. Per cui difende le proprie credenze, a prescindere della loro validità.

La demotivazione è il risultato di questa attività di difesa. Il sistema cognitivo difende i propri schemi e oppone resistenza al cambiamento.

Durante la psicoterapia capita spesso che i pensieri che subentrano a sostegno della demotivazione sono ispirati all’idea che, attività psicoterapeutica ed esercizi suggeriti, siano inutili, non adatti a sé, incomprensibili, banali, ecc. 

Altre volte ci si aggancia alla propria storia ansiosa per affermare (creare) la distanza tra storia personale di ansia sociale e attività protesa al cambiamento. 

In altri casi ci si sente come privati di autonomia o di libertà, quasi a identificare il lavoro diretto al cambiamento come strumento di costrizione a rinnegare la propria identità.

Poi c’è la paura. Paura di cambiare. 

Fin’ora hai attuato comportamenti di difesa (evitamento, estraneazione, astrazione, elusione ecc.) che avevano dei vantaggi come la cessazione dello stato ansioso, aver evitato ciò che era stato previsto come un insuccesso, una sofferenza, non essere incappati nei giudizi negativi degli altri. 

In breve, quei comportamenti “disfunzionali”, ti procurano un minimo di equilibrio emotivo, seppure border line.

Nella tua vita da ansiosa sociale, hai costruito e radicato dentro di te, modelli comportamentali che ti garantiscono questo livello di “sopravvivenza” emotiva che ti mettono al riparo dalle tue paure e da sofferenze previste. Modelli comportamentali che sono anche diventati automatici, quasi istintivi.

Se mi mettessi al tuo posto o al posto del tuo sistema cognitivo, penso farei questi tipi di ragionamenti: “Ma perché devo lasciare quel po’ di sicurezze che ho, per qualcosa che è tutta da inventare, sperimentare?”, “Dove mi porta questo cambiamento?! Io non ne ho idea”, “E se poi fallisco? Che fine faccio?”. 

È la paura di entrare in un mondo nuovo. È quasi come un obbligo, quasi una condanna a dover inventare sé stessi ex novo.

Da una parte c’è la paura per ciò che non si conosce, dall’altra si rifanno vive certe credenze che rimandano a presunte proprie inadeguatezze.

L’idea dell’inadeguatezza si ripresenta sotto forma di paure: il timore di non essere sufficientemente capace di fronteggiare il proprio cambiamento, la paura di fallire e magari sprofondare nella depressione, il timore di non essere capace di costruire la propria vita: la paura di sé.

Il cambiamento comincia ad apparire come una chimera, un sogno irrealizzabile.

Questa idea di mancanza di luce si trasferisce su sé stessi. Ciò che era una chimera, appare impossibilità al cambiamento del sé.

Se fingessi che il sistema cognitivo sia una persona, cosa direbbe a sé stessa, in questa situazione?: “Se una mia credenza dice che sono inadeguato, non sarò mai in grado di cambiare!”.

Non mettendo in discussione questa idea, procrastinando, evitando di verificare la sua reale attendibilità, attraverso la pratica comportamentale, si rinforzano le credenze negative, facendo emergere sensi di colpa, sentimenti di fallimento, d’incapacità.

Eppure, i pensieri non sono la realtà, la loro natura è essere pensieri.

I pensieri non sono la persona che si è: la loro tintura negativa descrive lo stato emotivo.

Eppure, le emozioni negative non descrivono la realtà, esse testimoniano solo di sentimenti di paura, di vergogna, verso gli altri e verso sé stessi.

Per sfuggire a certe sofferenze, che tra l’altro sono solo sulla carta, visto che le hai solo pronosticate, ti condanni a una sofferenza costante che ti fa desiderare di essere un’altra persona.

La paura della sofferenza alimenta la sofferenza.

Però, come in tutte le cose, c’è sempre il rovescio della medaglia. 

Applichi i tuoi comportamenti di difesa e ti ritrovi in quel minimo di equilibrio che sei riuscita a crearti nel tuo mondo interiore, ma qual è il prezzo che paghi? E, soprattutto, ti conviene?



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