Tra le tante definizioni della timidezza, una delle più comuni è quella che la descrive come paura di essere esposti o sottoposti al giudizio altrui.
Questa peculiarità è condivisa anche da altre forme di ansia sociale. Non a caso queste forme di disagio sociale hanno caratteristiche che sfumano l’una nell’altra; tanto che sono sovente confuse tra loro.
Per un individuo timido, l’esposizione al rischio del giudizio altrui che, nei suoi pensieri previsionali è sempre supposto negativo, equivale alla manifestazione esplicita, e involontaria, d’inadeguatezze che ritiene di avere: “Gli altri penseranno che sono stupido/a”; “Si accorgeranno che sono timido/a e impacciato/a”; “penseranno che sono un fallito”.
Per altri versi, la convinzione di una propria inadeguatezza induce la persona timida ad altre credenze correlate e/o implicite: l’inferiorità agli altri, l’incapacità al problem-solving, la scarsa capacità di autonomia: “Non sono all’altezza di loro”; “loro sì, che ci sanno fare”; “non sarò mai come loro”.
È in quest’ultimo scenario cognitivo che matura la forma più marcata di dipendenza dalle valutazioni altrui. Spesso questa conduce a comportamenti di subalternità.
In questi ultimi casi, l’ansioso sociale che si percepisce inadeguato e, per implicazione, inferiore o non capace, tende, nella manifestazione del proprio comportamento evitante, a non assumere ruoli decisionali e responsabilità: “È meglio evitare di assumere responsabilità e schivare le difficoltà, piuttosto che doverle affrontare”; “Sono debole e incapace, meglio dipendere dagli altri”.
C’è un altro fattore che intercorre nella dipendenza dai giudizi altrui ed è il problema dell’accettazione sociale.
Valutando la cosa in quest’ultima ottica, la dipendenza dai giudizi degli altri produce un sostanziale impasse, in cui il soggetto timido resta incagliato per il timore di una valutazione negativa che determini il suo insuccesso sociale: “Se faccio così, cosa penseranno gli altri?”. Anche qui possiamo trovarci di fronte a comportamenti evitanti o derivanti da inibizioni che bloccano l’individuo in una sorta di stand by.
Spesso questi tipi di impasse sono sostenuti dall’apprendimento passivo di miti, assunzioni, precetti familiari o di gruppo: “Il valore di una persona dipende dall’approvazione degli altri”; “se non si riceve approvazione e/o affetto dalle persone non si vale niente “; “Gli altri sono sempre pronti a metterti in croce”; “Bisogna sempre stare attenti al vocio della gente”; “mostrarsi fragili è un segno di debolezza”.
Questo timore della condanna sociale causa molti comportamenti all’insegna dell’indecisione, dell’ insicurezza, del blocco mentale, del tentennamento, della procrastinazione, dell’evitamento.
Le credenze negative sul sé possono trasmettere al soggetto timido, sentimenti di vergogna, di non meritevolezza.
L’idea stessa dell’inadeguatezza propria è vissuta come una colpa, spesso, come un difetto di “fabbricazione”.
Chiaramente in una società percepita come la fossa dei leoni, queste colpe, questi difetti, queste immeritevolezze, sono porte che chiudono l’accesso alla vita sociale e ai ruoli in essa praticati.
La società è il mondo degli altri. L’ansioso sociale non si sente parte di essa ma vi aspira; oppure, se sente di appartenervi, si percepisce borderline.
In ambedue i casi si considera a rischio, in una posizione di debolezza, in netto svantaggio di mezzi: il potere sta con gli altri ed egli si sente costretto a inseguire.
Paradossalmente, nonostante il dipendere dai giudizi altrui costituisce la strategia verso l’obiettivo di superare una condizione di fragilità come soggetti sociali, questa li fa vivere in una condizione di perenne fragilità e preoccupazione.