Benché sia ancora ampiamente dibattuta una sua definizione, è comunque condivisa l’idea che l’intelligenza sia uno strumento preposto all’adattamento all’ambiente attraverso la funzione di risolvere problemi con diverse strategie. Sembra evidente che la materia prima, che l’intelligenza “lavora”, sia il “conosciuto”, inteso come un insieme di esperienze, apprendimenti ed emozioni acquisite nel corso della vita propria. Essa elabora quindi dati di conoscenza che sono disponibili nella memoria o che si presentano nelle situazioni contingenti ed ai sensi percettivi.
Gli schemi cognitivi che ne derivano sono quindi in funzione degli elementi che l’intelligenza può processare, faccio un esempio:
Aristotele riteneva che le stelle fossero immobili, eppure era intelligente quanto una persona della nostra epoca, la ragione sta nel fatto che ai suoi tempi egli non disponeva della tecnologia e di quelle conoscenze matematiche e scientifiche che hanno permesso all’uomo moderno di scoprire la verità. La sua intelligenza, dunque, elaborava idee sulla base di ciò che aveva a disposizione.
Accade lo stesso ancora oggi; noi elaboriamo le nostre idee in relazione a ciò che conosciamo e che abbiamo appreso in modo diretto o indiretto, per trasmissione, per similitudine, per imitazione, attraverso le emozioni, i suoni, la tattilità, la verbalità, la percettività.
Un soggetto timido anche se ha delle credenze disfunzionali, non è meno intelligente degli altri, infatti la storia ci da numerosi esempi di persone timide che sono state al contempo grandi uomini di scienza, di cultura, d’arte; il teatro, ad esempio, ha permesso a tanti artisti timidi di emergere e dimostrare le loro qualità.
Molti intellettuali si trovano a disagio con le persone ignoranti, questo accade per il senso di frustrazione generata dalla sua impossibilità nell’esprimere concetti, principi o idee che chi gli sta di fronte non è in grado di comprendere, o che addirittura rigetta come se fossero solo sciocchezze.
Le credenze disfunzionali non sono, pertanto, un fattore dimostrativo di un basso quoziente di intelligenza, ma il risultato di una serie di eventi e comportamenti altrui che il soggetto timido ha vissuto soprattutto nell’infanzia, e che spesso si sono ripetuti fino ma anche oltre la propria adolescenza. Elementi che hanno costituito il pane quotidiano dell’apprendimento e che l’intelligenza non ha potuto che elaborare come fatti costituenti la realtà.
Ci sono soggetti timidi che non conseguono progressi negli studi e talvolta non completano neanche i corsi dell’obbligo scolastico. Certamente in tali casi essi non possono sviluppare abilità particolari, né riescono a migliorare le proprie capacità di comprensione o di apprendimento. È qui, in particolare, da valutare il fatto che lo studente timido non riesce a prestare attenzione alle discipline oggetto dello studio, poiché questa è indirizzata verso la propria condizione psicologica ed allo stato esistenziale che ne consegue. Purtroppo in casi come questi, l’individuo timido interpreta il suo fallimento scolastico come una riprova di proprie presunte inabilità, con ripercussioni che accentuano il livello di disistima verso se stessi e rafforzano gli schemi cognitivi disfunzionali.
Talvolta la causa dello scarso apprendimento scolastico non viene compreso appieno e si diventa più propensi a considerare lo studente come soggetto dotato di un basso quoziente di intelligenza cosa, come abbiamo visto, lontano dalla verità ma che soprattutto danneggia ulteriormente chi è preda della timidezza.
Sebbene la timidezza può, in un certo senso, imprigionare o limitare l’esercizio dell’intelligenza possiamo affermare che non esiste, tra esse, una relazione diretta.